Kataleya Mia Alvarez Chicclo e John Paul Getty III. Kata e Paul. Due giovani, accumunati da complicati nomi stranieri e dal destino di sequestro a scopo di estorsione – a Firenze lei e a Roma lui – divisi da cinquant’anni e ancor di più dal differente eco ed etica mediatica.
Ovvio, si potrebbe pensare. Cinquant’anni fa l’eco era per forza minore, eravamo ancora quasi al passaparola, c’era una sola tv nazionale e pochi quotidiani e periodici. Tutto il contrario, invece, oggi. Il tam tam mediatico di questi giorni per Kata è scandalosamente minore nonostante la moltiplicazione dei media e il labirinto della rete. Cos’è cambiato allora?
Sono trascorsi cinquant’anni da quando il 10 luglio del 1973 ci fu il rapimento a Roma del giovane diciasettenne John Paul, stravagante nipote del miliardario anglo-americano del petrolio John Paul Getty I. Erano gli anni in cui le folate libertarie del Sessantotto avevano chiuso alle nostre spalle i battenti del boom economico e il nuovo decennio era iniziato arrancando fra austerità, opposti estremismi, strategia della tensione e una nuova e diversa idea di fare politica e mafia.
Le cosche siciliane e calabresi avevano intravisto un facile finanziamento da destinare ad attività diverse, edili soprattutto, attraverso le quali lavare e rilavare il facile ma sporco denaro. Pur non essendo il primo sequestro, sei mesi prima il rapimento dell’industriale Pietro Torielli fruttò 1miliardo 250milioni, quello di Paul Getty durò cinque mesi, fruttò 3miliardi di lire e dette luogo a una campagna mediatica continua, con le prime pagine di quotidiani e settimanali stracolme di storie e immagini. Un continuo, insistente bombardamento giornalistico e televisivo che sfrucugliava fra dettagli, proscenio e retroscena dei tanti vizi e poche virtù della famiglia straricca che accumunava nella partecipazione.
Il Telegiornale, l’unico e diretto da Villy De Luca, andava in onda alternativamente sulla rete nazionale e sul secondo programma, senza far mai mancare notizie del caso a chi, naso all’insù, attendeva quotidianamente e con trepidazione l’ora del mezzobusto per commuoversi, parteggiare, tifare. Solo con il povero Alfredino Rampi, anni dopo, si supererà tanto clamore.
I rapitori ci misero del proprio usando con centellinata maestria i quotidiani come corrieri per i loro terribili – e per questo attraenti – messaggi ai familiari. Al Messaggero arrivò addirittura il famoso lobo dell’orecchio del ragazzo con lettera che minacciava lo stillicidio d’invio di altri pezzetti se non fosse arrivato il riscatto. Dopo alcuni giorni la prova dell’esistenza in vita fu inviata al Tempo con la fotografia di Paul senza la parte dell’orecchio e la richiesta minacciosa e ultimativa del riscatto.
Il 12 giugno 2023, un mese fa, un evento simile ha toccato la piccola Kata, sparita, sequestrata nel suo “contesto familiare dell’Astor” di Firenze, come Paul era sparito ai “Parioli” di Roma. Perché questa poca attenzione mediatica, cosa non “muove” l’evento di oggi rispetto a quello di ieri di Paul?
Evidentemente non risponde alle emozioni che premiano la selezione di una notizia popolare da passare sul giornale, eppure dietro a questa bimba c’è una famiglia che attende risposte e forse frustata dal contesto in cui vive.
Ma oggi, più di ieri, andare a sfregare con una moneta il “gratta e perdi” di quell’albergo, volontariamente dimenticato da tutti, che rivela con la sua sola esistenza l’italiana difficoltà di accoglienza, non fa audience. E le televisioni, tante, tacciono. I giornali, molti, ne parlano solo sottovoce, lasciando all’irrazionale mondo dei social l’urlo di dolore della famiglia che rimbomba in quel labirinto di specchi dove è facile perdere l’orientamento.
Non importa chi sarà il responsabile del rapimento, non importa se sarà pagato un riscatto, quello che importa e vale attenzione e vicinanza è il dolore della famiglia. Ma ancor di più importa il sorriso della piccola donna che rischia di spengersi per sempre. “L’indifferenza è segnale pericoloso”, dice Liliana Segre.