Bruce Springsteen, il Boss del New Jersey

L’appuntamento musicale del mercoledì

Bruce Springsteen, il Boss del New Jersey
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Lucia Mora Modifica articolo

4 Maggio 2022 - 14.14


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Il 21 luglio 2009 avevo due cose: dieci anni di età e l’incredibile fortuna di essere seduta allo Stadio Olimpico di Torino, per assistere – insieme a mio padre – al concerto di Bruce Springsteen e della “sua” E Street Band. Chi conosce i concerti del Boss può immaginare per quale motivo mi abbia cambiato la vita in modo indelebile. È grazie a lui se sono poi diventata una musicista, se ho iniziato ad amare la Musica e, di conseguenza, se questa rubrica esiste.

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Chiedere a me di recensire con entusiasmo Springsteen è come chiedere all’oste se è buona la cena: non riuscirei mai a fare il contrario. Gli sono abbastanza debitrice da riconoscere un certo conflitto d’interessi. Se mi sforzo, però, almeno un disco da sconsigliare lo trovo. Solo uno, però…

High Hopes (2014)

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Ecco, se – pistola alla tempia – dovessi indicare un titolo, direi High Hopes. Non è che sia brutto, niente di ciò che Bruce fa o tocca è brutto… È semplicemente evitabile. È un disco fatto di vecchie canzoni, di cover e di revival di vecchie cover. Uno dei pochissimi casi in cui il Boss suona a corto di ispirazione. Per uno che ha abituato i suoi ascoltatori a ben altri livelli, High Hopes è un passo falso, dettato più dal contratto discografico che dalla vena creativa.

Nebraska (1982)

Se chiedete al mio cuore qual è il suo album preferito, la risposta sarà Nebraska. Perché? Perché anche il cuore di Springsteen probabilmente darebbe la stessa risposta. Lo ha registrato in un giorno, su una cassetta a quattro tracce, da solo. Le successive prove con la Band non riusciranno a restituire la stessa anima profonda e alienata, perciò viene pubblicato così, come una raccolta di “demo”. E l’effetto è meraviglioso. Il folk americano del Boss prende i lati più cupi del disco precedente (The River, altro capolavoro) e li trascina ancor più giù, verso i fondali dell’abisso, raccontando di personaggi e dei loro demoni, che sono poi i demoni di Springsteen stesso. Un viaggio interiore commovente e irrinunciabile.

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Darkness on the Edge of Town (1978)

Se invece chiedete al mio cervello qual è il suo album preferito, la risposta sarà Darkness on the Edge of Town. L’opera omnia del Nostro che abbandona il vigore entusiasta di Born to Run per dedicarsi a brani più cupi e decisamente meno speranzosi. I “nomadi nati per correre” lasciano il posto ai “Caino”, agli ultimi e ai perdenti che cercano la promised land in un’America in cui non si riconoscono più. Darkness è il disco che più di tutti sancisce la piena maturità artistica del Boss del New Jersey, una pietra miliare della storia del rock e un must have per chi colleziona vinili. Ma anche per chi non li colleziona.

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