di Azzurra Arlotto
Le violente aggressioni ad altre ragazze da parte della baby gang femminile nella Città del Palio, oltre a generare sgomento, sollevano una serie di domande importanti sulle giovani generazioni. Abbiamo voluto parlarne con Oronzo Parlangeli, docente di Psicologia Cognitiva dell’Università di Siena
È possibile, secondo lei, che questo evento sia legato alla “reclusione” che i ragazzi hanno dovuto affrontare durante gli ultimi due anni di pandemia?
È molto probabile. Sicuramente, la pandemia ha aumentato il tempo che i ragazzi hanno trascorso in rete. Uno dei primi principali indicatori del rischio che si corre, non tanto di mettere in atto comportamenti devianti di tipo violento, quanto piuttosto di subirli, è infatti proprio il tempo che si passa in rete. Tante ragazze e ragazzi hanno passato più tempo in rete, e questo li ha resi più esposti a certi tipi di aggressioni.
Un altro aspetto dovuto alla pandemia che ha avuto conseguenze negative è l’assenza di socialità, soprattutto nei più giovani. La mancanza di relazioni sociali è in genere una delle circostanze che maggiormente provoca disagio. Con il susseguirsi dei diversi periodi di isolamento, la pandemia ha comportato, proprio per le giovani generazioni, un aumento di questo tipo di disagio perché è mancata la possibilità di esercizio di quelle che sono attività di costruzione della propria identità. Le relazioni sono rimaste indirette, mediate, parziali. Infatti, anche quando si è potuti tornare in aula e si è potuto rifrequentare dei luoghi pubblici, lo si è fatto con delle regole che hanno, in parte o totalmente, ostacolato le relazioni.
E poi c’è un altro aspetto ancora: in quelle circostanze di distanza sociale obbligata, questo disagio non è stato canalizzato, non è stato indirizzato verso qualcosa che potesse essere anche socialmente costruttivo. Il disagio giovanile è stato lasciato a sé stesso, non è stato imbrigliato, e quindi in molti casi è diventato comportamento deviante. Avrebbe potuto essere sublimato, diventare forza politica, costruzione o adesione ad un progetto. Ma proprio la distanza tra le persone durante i periodi di isolamento, la perdita di forza di alcune organizzazioni, sia politiche che culturali, ha fatto sì che il disagio non venisse indirizzato in senso produttivo, e così è rimasto disperso. Quando si è giovani si vive una fase di costruzione di identità, si è impegnati con tutte le forze in questa costruzione ed è difficile che, in solitudine, si riesca a gestire i sentimenti negativi, le paure, i sensi di inadeguatezza, le angosce.
Cosa può aver spinto le ragazze a voler usare i social per rendere pubblici i video delle aggressioni, ferendo così le vittime doppiamente?
Il fenomeno del postare le cose, del renderle pubbliche, si basa su diversi presupposti. In primo luogo sul fatto che il mondo virtuale resta per tanti ragazzi un mondo molto più privato di quanto non si immagini dall’esterno. È una sorta di realtà intermedia pubblica-privata. Pubblica per i pari, per i componenti del gruppo, ma vissuta come privata nei confronti degli altri. In questo mondo il genitore non entra dentro, i ragazzi sentono di vedersela tra di loro in modo meno controllato.
Poi, in secondo luogo, c’è l’aspetto del voler esistere, crearsi un’identità, diventare qualcuno. L’adolescenza è un periodo in cui ci si confronta con situazioni anche limite per verificare fin dove si può arrivare. Come un bambino può fare un passetto per vedere se cade o non cade, l’adolescente sperimenta opinioni, sperimenta comportamenti, spingendosi fin dove percepisce che c’è un freno, un ostacolo. Ma finché niente succede ci si può spingere sempre oltre, azzardare un’opinione o un comportamento più estremo. In questo tentativo di costruzione di un’identità tramite la sperimentazione di sé, molto passa anche attraverso il rispecchiamento delle opinioni degli altri, le reazioni del proprio gruppo di riferimento. Anche il postare quello che si è fatto, anche il rendere pubbliche le azioni più o meno riprovevoli, sono una forma di sperimentazione di sé, del dove si può arrivare nella definizione del proprio essere. Finché chi pubblica qualcosa suscita in chi legge, o in chi vede, risate o voglia di affiliazione al gruppo, o condivisione di un clima di divertimento, si va avanti perché si sta costruendo qualche cosa che in quel microcosmo appare come un pregio, forse anche un valore.
Qual è la causa principale dei comportamenti aggressivi di queste ragazze?
Domanda alla quale è forse impossibile rispondere. Da parte del pubblico c’è la voglia di trovare un semplice nesso causa-effetto del tipo: “se è successa questa cosa è per questo motivo”. Ma questa relazione, così poco articolata, non può essere stabilita. Intanto perché quello che è successo, almeno per quello che ci è dato sapere, è qualcosa con molti aspetti sfumati. Si tratta di una serie di comportamenti un po’ normali e un po’ anormali, un po’ già visti e un po’ innovativi. Quindi gli eventi che ci vengono riportati dai media sono difficilissimi da classificare. In questo caso specifico pare che ci troviamo davanti a delle ragazze che sono andate avanti maltrattando altre ragazze per uno/due anni, con una modalità organizzativa in cui era presente un capo con delle affiliate, con il passaggio dai social alla realtà. Difficilmente per un fenomeno di questo tipo, con tanti aspetti difficili da inquadrare, si può trovare una sola causa. Fenomeni così complessi sono sempre originati da una concatenazione di cause che si combinano in maniera quasi inestricabile. Queste cause possono essere enucleate una ad una, partendo dalle caratteristiche di personalità delle singole ragazze, dal ruolo delle famiglie, delle scuole e degli insegnanti, del gruppo dei pari, degli amici, via via fino ad arrivare al ruolo esercitato dal clima culturale cittadino, italiano, internazionale. Ma è dalla loro combinazione, dalle relazioni complesse di queste cause, che emerge il fenomeno. Per cui ogni tentativo di trovare un’unica spiegazione è un tentativo destinato a un probabile fallimento.
Quanto sono consapevoli, le ragazze della baby gang, delle loro azioni e dei danni sia fisici che psicologici che possono causare alle vittime?
Fare male, fare male in maniera ripetuta, non è qualcosa che sfugge di mano. E quindi se faccio male in maniera continuativa non dipende dal fatto che non si riescano a percepire le conseguenze di quello che si fa. Il problema, semmai, è che non ci sono gli strumenti per evitare di fare del male, per trattenere la rabbia senza ragioni, per gestire una voglia di autoaffermazione che non ha un obiettivo, ma semplicemente chiede di imporsi con qualsiasi mezzo, in qualsiasi modo. Il problema di fare del male fa parte del gioco. Questo può essere risolto, soprattutto dai ragazzi con dei pensieri che attenuano il senso di colpa. Pensieri che non significano per forza la limitazione della visione, della percezione della sofferenza. Più facilmente si tratta di pensieri che implicano il vedere l’altro come degno di essere punito, meritevole di essere ferito. Sembra una cosa disumana ma, appunto, spesso implica proprio la disumanizzazione della vittima. “Ti faccio del male perché sei inferiore, perché te lo meriti, perché sei come un animale”. C’è una serie di giustificazioni che possono essere chiamate in causa e che da un punto di vista della gestione delle emozioni negative danno i loro frutti.
È curioso che si tratti di una baby gang tutta al femminile. Ci sono delle differenze tra i due generi quando si parla di bullismo?
Tutte le ricerche hanno dimostrato che il bullismo e il cyberbullismo sono fenomeni sia maschili che femminili. La differenza tra i generi è principalmente nella percentuale di accadimento. Le ragazze, però, spesso sono violente in modi diversi. Se si guarda la differenza tra ragazzi e le ragazze nei comportamenti aggressivi in rete si scopre che i ragazzi più facilmente postano messaggi e foto offensive, le ragazze più facilmente partecipano a discussioni denigratorie, ingannano con diversi profili social.
In questo caso, il fatto che fossero ragazze contro altre ragazze rimanda probabilmente alla necessità di sperimentazione di sé, che nel caso di una città piccola come Siena, dove quasi tutte le ragazze di una certa fascia di età si conoscono tra loro, può significare voler affermare una propria identità all’interno del gruppo di riferimento: essere la ragazza più forte, la più temuta, quella speciale.
In una città come Siena il ruolo delle contrade quanto può incidere in fenomeni di questo tipo?
Quando le contrade funzionano bene e propongono ai ragazzi delle possibilità di vita organizzata, la realizzazione di eventi, e questi eventi sono partecipati, le contrade hanno un ruolo protettivo verso questo tipo di comportamenti. Vale a dire che ne diminuiscono un po’ il grado, la possibilità che si verifichino, ma non li eliminano del tutto. Le contrade, più o meno esplicitamente, riescono a farlo incidendo su alcune delle variabili delle quali abbiamo parlato prima. Per esempio, se si sta in contrada si sta meno tempo al cellulare, si apprendono alcuni valori quali il rispetto dell’altro, la lealtà, si impara a condividere le emozioni.
Una cosa sorprendente delle contrade è che hanno un valore protettivo anche per chi le vede da fuori. Le contrade, infatti, sono forme di socialità organizzata che viste dall’esterno appaiono solide, strutturate, dotate di forza. Se qualcuno sa che un individuo appartiene ad una contrada è più difficile che provi ad attaccarlo. È come se le contrade fornissero una specie di ombrello protettivo per le vittime, uno scudo che diminuisce le possibilità che queste subiscano minacce e maltrattamenti. Non aver frequentato le contrade, per via della pandemia, è stato probabilmente uno dei tanti fattori che ha fatto sì che le aggressioni delle quali stiamo parlando siano potute accadere.