“Lo spazio che alcune megalopoli hanno sottratto alla natura potrebbe essere stata una delle cause della trasmissione del virus dagli animali all’uomo”. Con queste parole il presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi, in un breve passaggio del suo discorso di presentazione del nuovo governo, ha posto sul tavolo gli effetti della rottura del rapporto tra uomo e ambiente.
Si tratta di un tema scottante che dalle cronache delle catastrofi ambientali da anni rimbalza nelle riflessioni degli scienziati e nelle battaglie degli ecologisti. L’umanità ha ‘mangiato’ la natura, e ora la natura per la prima volta dimenticata si fa ricordare attraverso una serie di atti di ribellione. Franano i costoni di montagna, terribili tempeste sono prodotte da un clima impazzito, i fiumi rompono gli argini, i ghiacci polari si sciolgono e fanno innalzare le acque dei mari mettendo in discussione la vita nelle aree costiere, le razze animali si estinguono, la biodiversità vegetale si riduce a vantaggio di ciò che è più gradito al gusto o al portafoglio degli esseri umani.
Intanto la globalizzazione spalanca le porte dell’Occidente a malattie nascoste nel corpo di animali a molti di noi ignoti, oppure accucciate da millenni in ambienti naturali dei quali nemmeno conoscevamo il nome. Sconosciute, difficilmente governabili, qualche volta letali per noi. Si pensa, perciò, che le malattie più gravi circolino come prodotto malato della globalizzazione, di un mondo per la prima volta interconnesso, dove le persone e i beni che essi consumano circolano a ritmi frenetici.
Ed è tutto vero. Tranne.
Tranne il fatto che tutto questo non avviene oggi per la prima volta, anzi, facendo le debite proporzioni, è già accaduto che fatti nuovi abbiano travolto gli assetti del mondo. Perché non siamo stati solo noi disperati a rompere il patto uomo-natura. In questo disastro, se tale è, siamo nella buona compagnia dei nostri antenati.
Mutamenti dirompenti segnarono, per esempio, i primi trecento anni del secondo millennio, quando la popolazione europea aumentò a ritmo elevatissimo e le città nacquero, rinacquero, esplosero, si riempirono. Autentiche metropoli, per il tempo, furono Milano, che toccò i 200.000 abitanti ed era la città più popolosa d’Europa, insieme a Parigi. Ma poi ne contavano più di 100.000 Venezia e Firenze e poi giù giù in una rete urbana fittissima.
E’ evidente che i contadini dovevano sfamare se stessi e i cittadini che erano sempre di più. Quanto più cresceva una popolazione che non produceva da sola di che sfamarsi, tanto più nelle campagne si forzavano le coltivazioni anche su terreni inadatti, si tagliavano i boschi per scaldare le persone o costruire le case. Quando non bastava c’era una grande rete che univa Asia, Africa, Europa del nord e del sud in un solo mercato fiorentissimo e di lungo raggio, che portava da una parte all’altra il grano e insieme le sete, le pellicce, le pietre preziose, le armi. E, come naturale, anche le malattie.
La pandemia di peste che dal 1348 decimò la popolazione europea venne dall’Asia sulle navi dei genovesi: era figlia, a suo modo, della prima globalizzazione. Anche allora la natura si ribellò. Nel corso del Trecento strariparono più volte l’Arno, il Po, la Senna, il Tevere e le acque trovarono da sommergere città piene di gente. Le alluvioni erano figlie del taglio degli alberi e dell’eccessiva antropizzazione di zone a rischio di inondazione, perché è vero che se non c’è l’umanità nei pressi, la natura da sola non conoscerebbe alcuna catastrofe. Nell’Europa del nord cedettero delle dighe.
Poi la gente cominciò a reagire. Ospedali grandi e piccoli sorsero numerosissimi nella città e nei piccoli centri. Qua e là si limitò il taglio dei boschi, si garantì la pulitura dei greppi. Nel 1499, a Parigi, quando il crollo di un ponte causò molte vittime, il re ordinò l’apertura di un’inchiesta e, sulla base delle denunce degli abitanti, i responsabili furono arrestati, incarcerati e condannati. A Roma la miscela di acqua, immondizie, fango e liquami provenienti dalle fogne, che dopo ogni inondazione del Tevere si accumulava nelle strade e nei luoghi bassi (cantine, grotte, stalle, cortili), produceva esalazioni pesanti considerate pericolose, e la ‘putrefatione’ dell’aria fu motivo ricorrente dei bandi emanati dalle pubbliche autorità dopo ogni alluvione.
Qualche volta si finì addirittura per usare la stessa parola, “pestilenza”, per indicare epidemie, carestie, guerre, inondazioni e crisi economiche: dal latino peius, voleva dire ‘la cosa peggiore’.