Comperare delle cose perché ci piacciono o perché ci hanno spiegato, per via pubblicitaria o chiacchierando, che ci dovrebbero piacere fa di noi altrettante persone economicamente attive e determinanti per il mercato. Se due milioni di persone comperano una saponetta di un certo tipo e dieci milioni un telefono di una certa marca il valore sociale di questi oggetti e quindi il loro prezzo sono alti.
Un’industria colossale fondata sulla vendita a distanza, Amazon, è cresciuta diffondendo cataloghi infiniti di oggetti di cui si raccomanda l’uso e si segnala l’importanza per la nostra felicità. In altre parole il valore delle cose è determinato non soltanto dalla loro abbondanza o rarità, oppure dalla loro utilità più o meno oggettiva, ma anche e forse soprattutto dall’apprezzamento soggettivo.
Questo grande meccanismo di mercato viene insomma fatto girare dalle scelte più o meno libere delle persone e dai loro desideri superficiali o profondi, originati dalla cultura alla quale appartengono o, molto spesso, indotti da chi vende le cose. Di solito si crede, e si scrive, che tutto ciò sia frutto della rivoluzione industriale che un po’ alla volta ha determinato, fra XIX e XXI secolo, la società capitalista nella quale viviamo.
Forse è così, ma che il valore e cioè il prezzo delle cose dipendano in gran parte dal gradimento individuale di esse è già cosa nota intorno al 1290, tanto che Pietro Olivi, un francescano attivo nella Francia del sud poteva scrivere nel 1294 in un suo trattato sui contratti che “alcune cose sono di solito ritenute più belle e più gradevoli e dunque per nostra volontà e scelta sono più desiderate e considerate utili: come è evidente nel caso della tinta delle vesti, dei colori delle gemme, dei profumi e del suono degli strumenti musicali.”