Anno 2020, vola dalla finestra un neonato partorito, in condizioni di paura che non vogliamo nemmeno immaginare, da quella che è poco più che una ragazzina. Un altro è infilato in un cassonetto. Un altro ancora viene abbandonato perché qualcuno lo accudisca, ma in situazioni che ne mettono in pericolo la salute e la vita.
La cronaca italiana ci rimanda, oggi, tragici episodi di disperazione, ignoranza, solitudine di giovani madri, nonostante i sistemi contraccettivi siano alla portata di tutti, ci siano leggi che consentono di abortire in sicurezza e sia riconosciuto, comunque, il diritto al parto in anonimato.
Quando c’è solitudine, disperazione, immaturità o fame sembrano sbiadire anche sentimenti forti e profondi come quelli che agiscono nella sfera del materno.
È il 21 agosto 1398 quando Margherita Datini scrive da Prato al marito, il ricco mercante Francesco di Marco. Gli racconta, come fa sempre quando lui è lontano, i fatti della sua giornata. Sta cercando con urgenza una balia per conto di una delle donne di casa. È già in parola con un paio di brave balie e con una terza che “muore di fame tutto l’anno”. Margherita tiene d’occhio, soprattutto, quella che si renderà disponibile non appena avrà seppellito la figlia di due mesi la cui morte è attesa per quella notte stessa. Ha partorito da poco, ha il latte fresco, non deve allattare la propria figlia e questo la renderà una buona balia, una figura tragica di donna che attende la morte della sua piccolina per correre a mettere in vendita un latte prezioso, perché la legge del mercato dice che se una madre ha appena perso il figlio può chiedere un salario più alto. In quei tempi le madri della buona borghesia urbana, è fatto noto, non allattavano volentieri.
Ma le balie che allevavano per denaro i figli della ricchezza, sfamavano con latte materno anche quelli della povertà: i tanti bambini – più spesso femmine – poggiati nelle ‘pile’ per l’abbandono in anonimato, infilati nelle ruote o fatti passare attraverso una finestra ferrata, i lati della quale magari vegliavano Giuseppe e Maria come in un presepe. Oggi ne esiste la versione hi-tech sotto forma di “culle termiche salvavita”, collocate vicino agli ospedali: sono poche, ma sono riscaldate, hanno la chiusura in sicurezza della botola, controllo continuo e rete con il servizio di soccorso medico.
Le testimonianze del passato e del presente sono allo stesso modo toccanti e crude. Poi, improvvisamente, la storia ci stupisce con la sua tenace ricerca di soluzioni alternative, in questo caso, come lampi di speranza, la capacità di reazione di tante donne.
E’ il 14 marzo del 1432 ed Ermellina, una ragazzina di quindici anni viene accompagnata di nascosto a Firenze da una sua vicina, la vedova monna Antonia. Sua madre è morta e c’è solo Antonia in grado di sottrarre Ermellina al padre che “è uomo da poco e cattivo”, e alle sue insidie, perché “non capitasse male”. Antonia protegge la ragazzina contro gli abusi sessuali in famiglia, contro il rischio di gravidanze indesiderate.
Una storia di affetti e di abbracci ce la racconta monna Nencia alla quale il priore di un ospedale fiorentino ha chiesto di restituire un bambino per proteggerlo dal contagio della peste. Ma Nencia ha già visto morire tutti i suoi figli, e scoppia in un “grande pianto” di fronte a quell’uomo vestito del suo potere, perché è affezionata come a un figlio proprio a quell’ultimo bambino che ha tenuto al seno. Il pianto viene considerato prova della sincerità di un sentimento che esige rispetto. Il marito, Martino, si impegna a restituire l’intero salario ricevuto dalla famiglia fino a quel momento. Il latte di Nencia torna così una funzione gratuita e questo le dà dignità e diritti di madre.
Nascondendo che madre e aspirante balia sono in realtà la stessa persona alcune donne senesi hanno messo a punto un sistema semplice e ingegnoso. Si presentano offrendosi come balie alla porta dell’istituto al quale hanno appena lasciato il proprio figlio, cercando la strada per essere aiutate dalla società ad allevarlo, senza affidarlo ad altri. In questo modo mitigano il dramma, sciolgono l’ansia consentendo di immaginare che ai loro piccoli non sia negato un futuro. Poco lontano, a San Gimignano, altre donne concordano direttamente l’abbandono in cambio di un modestissimo salario da ricevere per il tempo dell’allattamento. Anche i minuscoli oggetti depositati come carezze protettive sui corpicini (collanine e braccialetti di vetro colorato e di corallo, monete o carte da gioco tagliate a metà, croci, chicchi di «paternostro», amuleti, cordicelle), che arginano la perdita di identità lasciando aperta l’ipotesi di un ritorno in famiglia, servono prima di tutto alle balie per riconoscere i propri figli in mezzo ai vari che potrebbero allattare.
Naturalmente questo costume non è visto di buon occhio, e se ne diffida. Però forse qualcuno chiude un occhio, considerando l’inganno modesto rispetto al trauma psicologico del distacco dopo il parto che aggrava la mancanza di serenità per una gestazione non desiderata. E forse, così, la comunità inizia così a prendere almeno atto della necessità di qualche forma di protezione sociale della maternità. Ma quello che conta di più è che le madri che si ingegnano a cercare la strada per essere aiutate ad allevare i propri figli lanciano un ponte tra il privato e il sociale. Con un semplice gesto di silenziosa insubordinazione affermano che la maternità non può essere lasciata in balìa della povertà o della solitudine.