L'Irlanda e il gaelico: quando il colonialismo pervade i cuori

La colonia di Audrey Magee racconta l'incontro di uno scrittore e un linguista in un'isoletta dove si parla ancora gaelico

L'Irlanda e il gaelico: quando il colonialismo pervade i cuori
Cartelli in gaelico in Irlanda
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1 Aprile 2023 - 19.39 Globalist.it


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di Rock Reynolds

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L’assoggettamento di un popolo e la cancellazione della sua eredità culturale partono quasi sempre dall’imposizione di una lingua straniera o comunque molto diversa, la lingua del conquistatore o della classe dominante: la possibilità di parlare quotidianamente la volgata ancestrale si fa via via più rara, con l’estromissione della stessa dai programmi didattici delle scuole e la facilitazione più o meno sottile dell’adozione di modelli culturali e abitudini comportamentali altrui, spesso antitetici al paniere di valori tradizionali del popolo sottomesso. È successo con le lingue autoctone di decine di paesi conquistati dai colonizzatori nelle Americhe, in Africa e in Asia ed è successo pure nella nostra Europa, con il caso lampante dei Paesi Baschi e dell’Irlanda.

All’euskara, la sua lingua, il popolo basco si è abbarbicato con forza, facendone uno stendardo di libertà, anche perché Franco aveva tentato di soffocare la sua voglia di emancipazione e autonomia cominciando proprio dall’imposizione dello spagnolo. In Irlanda, forse perché la colonizzazione dell’isola è avvenuta attraverso l’invasione da parte di una potenza straniera, ovvero l’Inghilterra, il processo ha portato di fatto alla cancellazione quasi totale del gaelico, per quanto tutt’oggi resistano alcune modeste sacche di territorio in cui, con l’aiuto delle istituzioni della repubblica, si tenta di preservarlo. Quelle aree si chiamano Gaeltacht e si trovano principalmente in Connemara, Mayo e Donegal.

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La colonia (Bollati Boringhieri, traduzione di Chiara Baffa, pagg 312, euro 18) di Audrey Magee è uno splendido romanzo che racconta una storia tutto sommato classica e lineare: un pittore inglese e un linguista francese si incontrano e scontrano su un’isoletta immaginaria (ma non troppo) al largo delle coste nordoccidentali dell’Irlanda dove vive una striminzita comunità che ancora parla un irlandese antico, non imbastardito. Jean-Pierre Masson frequenta da tempo l’isola proprio per documentare il processo irreversibile di perdita delle tradizioni e l’ineluttabile e imminente sparizione del gaelico, non appena le vecchie donne di quella società matriarcale saranno scomparse. Il signor Lloyd, invece, si reca sull’isola per trovare nella sua natura selvaggia e nelle sue scogliere sferzate dagli elementi e baciate dalla luce dell’Atlantico le suggestioni necessarie per creare quei quadri che è sicuro che possano dargli celebrità e riconoscimenti nel mondo dell’arte. Della conservazione del gaelico non gli importa nulla, considerandolo con un certo cinismo un’ode romantica ai tempi andati. Di contro, al francese poco piace l’intrusione di un inglese in una sorta di Eden tradizionale irlandese.

L’isola ha visto una immane tragedia abbattersi sulla famiglia che la popola: il marito, il fratello e il padre di Mairéad, sono morti in un incidente di pesca e lei cerca un corpo che le scaldi il cuore tra le braccia del francese, avvertendo una certa attrazione pure per l’altro straniero, l’inglese. Ma, oltre a costituire una comunità chiusa e tradizionale, la sua famiglia non accetta l’idea che un inglese possa condizionarne a tal punto la vita e insinuarsi nelle sue pieghe più intime. In fondo, è l’estate del 1979 e i “Troubles”, la guerra civile dell’Irlanda del Nord tra cattolici e protestanti e pure tra cattolici e inglesi, vive uno dei momenti più sanguinosi. Il francese e l’inglese non sono esattamente in sintonia e a mescolare ulteriormente le carte è il figlio di Mairéad, James, un giovane aspirante pittore di talento, per nulla intenzionato ad assecondare il destino di pescatore che la sua famiglia ha in serbo per lui.

Raccontato con il piglio dei grandi narratori, La colonia non è un romanzo politico, però la vicenda umana quasi shakespeariana che narra non può che dipanarsi sullo sfondo di quanto avviene sulla terraferma, con bollettini quotidiani di morte, orrore e violenza settaria.

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Audrey Magee scrive con garbo e creatività, alternando dialoghi serrati, privi di virgolette, a descrizioni bucoliche su cui incombe un senso di tragedia o, comunque, di ineluttabilità che ben si sposa con la furia del mare e del cielo. Il punto di vista narrante slitta costantemente e quasi senza soluzione di continuità da un protagonista all’altro, in quello che è uno dei cardini della letteratura irlandese moderna, il flusso di coscienza lanciato in grande stile da James Joyce. Dunque, pagine intere senza segni di interpunzione che, però, non rallentano il ritmo e, soprattutto, non risultano stucchevoli.

La vicenda umana, come si diceva, viene per prima e lo spazio angusto dell’isola – di per sé metafora fortissima della ricerca della libertà interiore quanto fisica – è il proscenio perfetto per una storia asfittica. Però, un romanzo irlandese che si rispetti raramente elude la grande questione, il tema unificante dell’affresco patriottico di un paese che vorrebbe mantenere una fiera identità nazionale e che, invece, rischia di perderla nell’omologazione della globalità e nel pericoloso avvicinamento agli stili di vita angloamericani: il giogo coloniale. Nei decenni, ben prima che gli “Accordi del Venerdì Santo” del 10 aprile 1998 mettessero fine alla lotta armata, la Repubblica d’Irlanda ha spesso mostrato disinteresse per la causa dei nazionalisti dell’Ulster se non un vero e proprio fastidio nei loro confronti. Audrey Magee sembra propendere per il sentire comune, lasciando che siano i suoi personaggi a esprimersi o a non farlo. Proprio come è successo e succede tuttora nel tran tran quotidiano delle due Irlande.

Con lucido distacco o, magari, con razionale prosaicità, l’autrice sceglie di affrontare il tema, collocando qua e là un capitoletto che, di fatto, è l’ultimo bollettino di guerra: un giovane cattolico ucciso da un commando lealista o un padre di famiglia protestante fatto fuori da un militante dell’IRA, una bomba nazionalista che fa saltare per aria una camionetta dell’esercito inglese straziando giovanissimi soldati oppure un proiettile vagante di un militare britannico che ammazza un ragazzino incolpevole. Non è un caso che, nei ringraziamenti finali, l’autrice citi due testi che raccolgono i nomi e le storie di tutti i morti del conflitto. Perché ogni vittima di una guerra civile abbia un volto e un valore e non finisca per trasformarsi in un numero.

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Che questa violenza settaria e il sangue versato nella cattolicissima Irlanda, alle porte della cristianissima Europa, siano ancora humus florido per romanzi profondi fa riflettere: i semi della discordia non li porta il vento dell’oceano bensì l’avidità umana.

Audrey Magee lo sa bene e, senza renderla una caratteristica principale della sua scrittura, indica la strada al lettore. Il prezzo del colonialismo è altissimo. Le sue conseguenze sul tessuto sociale e, in seconda battuta, sulla vita stessa delle persone sono destinate a riverberarsi nel tempo.

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