Ormai in quasi tutti i giornali italiani hanno pubblicato recensioni sul volume di Gabriella Piccinni, uscito qualche settimana fa per i tipi dell’Einaudi, con un titolo molti esplicativo, Operazione Buon Governo. Un laboratorio di comunicazione politica nell’Italia del Trecento. Ne converso con l’autrice, nella piazza di Monteriggioni, in osteria del tutto particolare, non a caso è letteraria, in mezzo ad ascoltatrici e ascoltatori attenti che poi diranno anche la loro.
Parto, nel riproporre in sintesi, questa conversazione dalla “forza comunicativa” che l’affresco sprigiona e dal suo esser considerato dall’autrice, appunto, un laboratorio di comunicazione politica. E’ come se Gabriella Piccinni, studiosa di storia medievale, avesse voluto fare un lungo e articolato viaggio nel Trecento senese attraverso gli occhi di Ambrogio Lorenzetti. E’ l’approdo di una ricerca che dura da anni durante la quale più letture sono state incrociate, scrutando tutto ciò che su quest’opera si era fino a ora, si è scritto e detto. L’osservazione, in questa ricerca, s’è spinta oltre: lavorando minuziosamente sulla situazione storica, sulla committenza, sui modi di concepire l’affresco e sul modo, tutto particolare, con cui l’autore ha rielaborato grazie alla sua immensa capacità pittorica gli intendimenti della committenza, cioè del governo dei Nove che, allora, reggeva la città di Siena e che si trovava ad affrontare una robusta crisi.
L’autrice spiega, prima di tutto, la motivazione che l’ha spinta a scrivere, con uno specifico approccio storico, l’opera: “Il libro, contiene il mio desiderio di avvicinarmi un po’ al “mistero” della forza comunicativa del Buon Governo, quella forza che fa sì che un bambino ne tragga qualcosa di suo quanto un dotto, o che noi ci troviamo ogni tanto a parlarne come se Ambrogio Lorenzetti gli avesse dato oggi le ultime pennellate”. Partendo dell’elemento decisivo, quello dell’efficacia comunicativa del ciclo del Buongoverno, l’autrice mostra nel volume, e propone in questa conversazione, che questo risultato è determinato dalla capacità di Ambrogio Lorenzetti di “mostrare come realizzati, e ancore realizzabili, i tratti dell’utopia politica elaborata dai regimi di Popolo, trasformandola in un racconto circolare che ritorna sia a un pubblico abbastanza colto da apprezzare il gioco ‘letterario’ e le metafore dotte sia a molta parte della gente comune. Così facendo si è rinnovato il linguaggio della comunicazione politica. Per questo provo a comprendere quale sia stato il modo nuovo con il quale questo è stato fatto in quest’opera: un capolavoro tra i più visti e commentati che prende corpo tra le tensioni dell’economia e della politica nella tumultuosa realtà sociale da cui l’opera nasce. E di cui è uno specchio”.
Stiamo parlando di un ciclo che occupa le tre pareti della Sala del Governo: ben 36 metri di pittura accompagnati dai 62 versi della Canzone che, in modo integrato e intrecciato, mostrano la storia della società e della politica cittadina in cui quella realizzazione s’inserisce. Il volume è peraltro ricco di grandi e piccole illustrazioni dell’affresco, con una particolare cura nel mostrare non solo i temi dominanti e conosciuti (le allegorie, la città vissuta e il rapporto con la campagna) ma anche dettagli che difficilmente si colgono anche nell’osservazione dal vero del grande capolavoro. Nel suo lavoro Gabriella Piccinni entra nelle pieghe del rapporto tra la committenza e l’autore dimostrando come quest’opera non sia solo il frutto della genialità di Ambrogio Lorezzetti (raccontato, nel volume, come di un pittore colto molto legato al gruppo di governo) ma di un autore collettivo.
Oggi quando si parla con le nuove generazioni di “autore collettivo”, sono portate a pensare che si tratti di romanzi o storie scritti a più mani. Nella Rete, ad esempio, va molto di moda. Allora, in quella Siena trecentesca, cosa un autore collettivo voleva dire, precisa l’autrice, che l’opera “prende forma in un humus culturale” di una comunità civica e politica cui l’artista partecipa e di cui esprime, con magnifica inventiva e perizia, le aspirazioni e gli intenti: quelli di governare col consenso una società non pacificata alle prese con la crisi di un’economia e una politica in trasformazione. In questo senso il Buon governo si conferma prodotto non solo da Ambrogio Lorenzetti come esecutore materiale dei dettami di un sapere compendiato dai suoi che colti committenti, dopo che ci siamo già detti più volte che il pittore non può essere stato chi ha tradotto meccanicamente in immagini un trattato di filosofia politica”.
Il ciclo diventa, quindi, il prodotto di una sedimentazione di quell’humus culturale che la comunità civica e politica stava allora vivendo e di cui Ambrogio era erede e insieme protagonista: con la sua magnifica inventiva, la sua abilità tecnica e con una notevolissima capacità retorica nel presentare come risolta la relazione consequenziale tra le idee (e la stessa parola idea si tinge così di una sfumatura progettuale) e la loro realizzazione, tra i principi, le virtù e i vizi della politica e i loro civili effetti. Chi governa per il “bene pubblico” realizza quella città armoniosa che è rappresentata in una parete; chi governa per il “ben proprio” produce il terrore, la guerra e la città disastrata della parete opposta. Un messaggio che mantiene intatto il suo alto significato e che, forse, ha contribuito a rendere questo unico e grandioso ciclo pittorico come un segno indistruttibile dell’utopico bisogno del Buon Governo.