“Mare in fiamme” ricorda, nel titolo, il documentario del 2016 “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi sugli sbarchi di migranti a Lampedusa e su chi li soccorre. Quel mare è il nostro Mediterraneo attraverso il quale tanti cercano una salvezza e tanti incontrano la propria fine e che si porta dietro i mali della storia. “Mare in fiamme” (L’asino d’oro edizioni, pp.240, euro 15,00) è il romanzo con cui Francesco Troccoli racconta, con empatia, un intreccio di storie che portano a vedere o forse è meglio dire a sentire più direttamente quanto accade nel Mediterraneo, in Libia e in terra italiana. Per questo Natale vi proponiamo pertanto un brano da questo libro.
Protagonista è Marina che riceve una richiesta d’aiuto da una giovane africana mentre “suo padre Italo è appena rimasto coinvolto in un’esplosione in Libia, dove stava svolgendo un’inchiesta rischiosa, ed è in coma – scrive la casa editrice – Nel giro di pochi giorni, Marina si ritrova così alle prese con un mistero che sconvolge la sua tranquilla vita di insegnante in una scuola multietnica di periferia”. E così Marina si trova “a fare i conti con il proprio passato sull’altra sponda del Mediterraneo” e con “il timore di non aver mai conosciuto realmente suo padre” finendo in un intrigo che allaccia “i misfatti e i crimini di guerra del passato coloniale italiano all’attuale dramma delle migrazioni verso l’Italia. Donne, uomini, i suoi stessi alunni”.
Troccoli di suo ha una storia particolare. Nato nel 1969, farmacista, ha lasciato una multinazionale del farmaco per diventare scrittore e traduttore ed è autore della trilogia di romanzi di fantascienza sull’Universo Insonne, dove la spinta etica e sociale è sempre presente. Per gentile concessione dell’editore, qui un brano dal suo nuovo romanzo.
di Francesco Troccoli da “Mare in fiamme”
Il volto di Genet sono tre linee tracciate a inchiostro di china. È così che Italo lo ha dipinto, molti anni fa. È così che lo ricordava. Nessuno, guardando il ritratto, avrebbe dubitato che quella fosse lei. Anche se in pochi, in casa, si fermavano ad ammirarlo. Genet pelle ambrata, Genet anfora africana, Genet Lilith. Genet occhi di ossidiana, Genet cielo stellato. Gli occhi di Italo, velati di lacrime, faticano a ritrovare una sola di tutte le Genet di cui è stato perdutamente innamorato.
Finché sua moglie, Eleanor, è vissuta in Libia, il ritratto cambiava collocazione di continuo. Da una stanza all’altra, come una carovana fra le oasi. Per quanto ne sa lui, è probabile che non esista più, che sia andato in pezzi insieme alle ultime bambole di Marina, o magari è sepolto ancora integro sotto le macerie della casa. Qualcuno potrebbe persino averlo portato via, proseguendo la tradizione errante di quelle tre linee nere su fondo bianco, e della donna in carne e ossa che le aveva ispirate. Qualcuno abituato a rubare vite.
Zanin, l’amico carabiniere, si è presentato da Italo poco dopo l’alba. È andato dritto alla porta della sua stanza, al secondo piano del residence dei giornalisti. Italo lo ha fatto entrare e ha messo la moka sul fornello.
«Ho trovato Genet» gli ha detto subito Zanin. «Solo lei, però».
Dopo il caffè e un’intera giornata di viaggio, Italo e Alberto Zanin sono arrivati al centro di smistamento. È una vecchia fortezza, all’interno, lontano dal mare. Il fuoristrada Defender ha fatto la gimcana fra le buche aperte dalle bombe e i posti di blocco. Tanti chilometri in mezzo alla sabbia, acqua in quantità nei serbatoi e qualche pacchetto di sigarette nelle mani giuste, ma niente soldi, non ce n’è bisogno se sei amico dei carabinieri italiani, però a Italo piace mostrare gratitudine ogni volta che può. Torna sempre utile. Ecco perché uno che come lui odia il fumo si tiene in casa pile di stecche provenienti dall’Italia. «La stessa marca, se la compri a Tripoli, fa schifo» gli ha detto Zanin una volta, e lui sì che se ne intende, allora Italo ha capito che per le faccende di ogni giorno quella è una buona moneta. Anche adesso, mentre i suoi occhi annaspano in quelli di Genet, il carabiniere scelto Zanin se ne sta là fuori, in balcone, a fumarsene una come fosse l’ultima, mentre si sloga le dita a mandare messaggi alla morosa.
Genet gazzella solitaria. I suoi occhi, la luce, l’hanno persa. Le sopracciglia escoriate, il naso tumefatto. Italo sente una morsa alla pancia. Le tre linee del ritratto a china sono diventate quasi invisibili, costrette a nascondersi a suon di fughe da decine di mani pesanti come piombo, ruvide come ghiaccio. Fughe inutili, soffocate, come voci senza suono. Italo fatica a respingere dalla propria mente quelle immagini, l’idea di cosa Genet possa aver subìto, mentre pensa che se ora le stringesse la mano rischierebbe di farle male. Vorrebbe far portare qui tutte le sue scorte di sigarette. Ma non basterebbero a far aprire i cancelli e farle uscire, tutte. Genet per prima, poi le altre e infine gli uomini, dall’edificio dirimpetto.
«Ti farò andare via da questo posto» le dice guardando per un istante la parete di pietra rossa di fuori, alle spalle di Zanin. «Te lo prometto».
«Se hai dei soldi, non sprecarli per me. Trova Mina».
«Vi ho inseguite per tutti questi anni, tutt’e due».
«Siamo scappate da casa. Si moriva di fame».
«Perché non sei venuta da me?».
«Tu pensa a trovarla, adesso».
Genet canto di usignolo. La sua voce fa male. Ora è tenue, piatta, svuotata. Se non la vedesse sgorgare da quella bocca, Italo non la riconoscerebbe.
Altre donne si voltano, aguzzano lo sguardo. Lo parla troppo bene l’italiano, Genet. E che ospiti di riguardo.
«Dov’è?» domanda Italo.
Genet scuote il capo. «Ci hanno separate a Misurata».
«Vi stavate imbarcando».
«La guardia costiera ci ha preso in acqua. Eravamo a poche centinaia di metri dalla costa. Avevano un motoscafo veloce… sparavano. Era notte, non abbiamo potuto fare… niente».
«Lo so. Quel motoscafo glielo ha dato l’Italia. Insieme a tante altre cose».
«Quando siamo tornati a terra, hanno picchiato gli uomini davanti alle donne. C’era anche mio cugino». Genet si ferma un istante. «Credo che sia morto. Poi ci hanno separate da loro e hanno portato via le più giovani. Anche Mina. Di lei non ho più saputo niente» conclude chinando il capo.
Genet mani di seta. Parla rannicchiata in un angolo. Italo è chino sulle ginocchia, davanti a lei; con la coda dell’occhio vede un topo che si infila in una fessura attraverso la parete. Le tende la mano. D’istinto l’eritrea si scosta, e per un istante Italo sente che negli occhi di lei non c’è più lui, ma uno dei tanti fantasmi che hanno popolato i suoi incubi a occhi aperti. Spettri di torturatori, stupratori, carnefici in carne e ossa. Resta immobile, in attesa, finché è certo che Genet veda di nuovo la sagoma dell’uomo che un tempo ha amato. Soltanto lui. Solo allora la mano di Italo guadagna la guancia di Genet. Gli sembra di toccare la cartapesta.
«La troverò» le dice.
© L’asino d’oro edizioni