Fotogiornalista palermitana nota in tutto il mondo, la Battaglia è stata, tra le molte cose, anche assessore alla vivibilità urbana (con 5.000 alberi piantati!) nella giunta comunale di Orlando nella seconda metà degli anni ’80 e, in chiusura del libro, troviamo una intervista della Pisu allo stesso Orlando. La sua attività è al centro del documentario Shooting the Mafia (2019), diretto dalla regista britannica Kim Longinotto, e del film di Franco Maresco La mafia non è più quella di una volta(2019), premiato a Venezia.
Dopo 30 pagine di racconto personale e familiare che potrebbero risultare meno interessanti per i lettori, arriva la fotografia e il libro decolla. È il 1969, Letizia Battaglia si presenta alla redazione de L’Ora proponendosi come giornalista e un giorno in cui nessun fotografo la accompagna sul luogo dell’intervista scatta la sua prima foto, a Enza Montoro, prostituta di un quartiere popolare palermitano. Se è vero che la vita di Letizia Battaglia è un romanzo che racconta il Novecento italiano (la borghesia siciliana, i bombardamenti della seconda guerra mondiale, le manifestazioni per l’italianità di Trieste, le fuitine di ragazze troppo giovani per sposarsi), è, infatti, evidente che la vita di Letizia comincia quando arriva la fotografia. “Sono nata come persona solamente quando avevo trentanove anni: è stata la fotografia a reinventarmi come donna, a darmi un’identità, un’autonomia”. La Battaglia inizia a scattare fotografie con una piccola Minolta, ricevuta in regalo, che ha cambiato il corso della sua vita e anche quello del fotogiornalismo italiano. E se a Milano sono cominciate la sua vera vita e la sua storia fotografica (risalgono a quegli anni le collaborazioni con Le Ore, la rivista ABC, Vie Nuove, la collaborazione con l’agenzia fotogiornalistica Giacomino Foto e gli scatti a Pasolini), resta Palermo la sua città, quella che le darà la notorietà.
Sarà, infatti, la prima donna a dirigere il settore fotografico di un quotidiano, quando L’Ora la richiamerà a Palermo nel 1974. Ritenuta non all’altezza da qualche collega, la domanda “Picchì idda?” (perché lei?) che si è levata quando ha iniziato a dirigere il Centro internazionale di fotografia (e da cui lei ha tratto una scritta al neon) l’ha spesso accompagnata, unica donna, in un mondo maschile come quello del giornalismo italiano di quegli anni, in cerca di autonomia e rispetto.
Palermo è la fotografia di morti ammazzati per mafia, del teatro nell’ospedale psichiatrico Real Casa dei Matti, delle minacce ricevute per le sue fotografie, della scorta rifiutata, della foto scattata un po’ per caso al momento dell’omicidio del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, la Palermo di Falcone e Borsellino (i cui omicidi la Battaglia non ha saputo fotografare), della famosa foto sfocata in cui Andreotti è immortalato accanto al mafioso Nino Salvo, sequestrata a fini processuali.
La fotografia è un’arma, collettiva, per difendere Palermo: “In quegli anni la mafia dei Corleonesi ha conquistato Palermo con il sangue e quel sangue è entrato nelle mie fotografie. Non pensavo di avere coraggio, ma solamente che dovevo denunciare la mattanza che avevo sotto gli occhi, testimoniarla con la fotografia”.
“Il nostro era un lavoro diverso da quello che fanno i fotografi inviati negli scenari di guerra che, se sopravvivono, tornano a casa. Noi abbiamo continuato a vivere a Palermo, camminavamo nelle stesse strade dove erano stati commessi gli omicidi, dove viveva un fratello o qualcuno che comunque era legato alla mafia, alla persona uccisa”. Fotografie sempre in bianco e nero, con la sola eccezione di un rullo a colori proprio il giorno in cui le capiterà di fare l’unica fotografia a un bambino ammazzato dalla mafia (“Il rosso del sangue nella foto a colori è terribile. Non mi ero mai accorta che facendo le foto in bianco e nero mi risparmiavo la violenza di quel rosso”). Fino a che, dopo le stragi di Capaci e Via d’Amelio, ha smesso di fare fotografia di cronaca.
Autodidatta, la Battaglia ammette di non aver saputo niente della luce, del diaframma e dei tempi ma di aver cominciato a studiare poi perché voleva “fotografare bene”, mentre cercava di documentare quello che succedeva intorno a lei con il suo sguardo ostinato e laico, civile.
Un libro interessante per chi ama la fotografia (con Josef Koudelka e tutti gli altri nel capitolo “Maestri di verità”), per chi vuole fare il fotografo ma anche il giornalista, per chi vuole tenere gli occhi aperti sul mondo in cui vive.
Picchì idda, con la sua storia e le sue fotografie, ci può aiutare a farlo.