Antonio Salvati
Francamente da insegnante i risultati della nuova indagine Ocse Pisa – quelli relativi alle capacità di comprensione del testo da parte dagli studenti italiani – non mi hanno particolarmente colpito. Infatti, ci forniscono una situazione alla quale ci troviamo di fronte tutti i giorni. Intanto chiariamo che la questione legata alla lettura e soprattutto alla comprensione di ciò che leggiamo riguarda tutti. Anche noi adulti. Secondo l’Ocse, infatti, in Italia non ci sono solo alcuni studenti con problemi ma «11 milioni di persone che si informano per sentito dire non riuscendo a comprendere fino in fondo un articolo di giornale (o un contratto di lavoro)». Del resto, tale fenomeno fu denunciato da intellettuali come Calvino e Pasolini già negli anni 60 del secolo scorso (in concomitanza con il boom economico). Il processo è andato molto avanti, determinando un abbassamento qualitativo della lingua usata dagli italiani.
Eppure noi insegnanti oggi abbiamo più strumenti
Eppure rispetto a qualche decennio fa noi insegnanti possediamo un maggior numero di strumenti e studi per meglio esercitare il nostro lavoro. Conosciamo di più i meccanismi neurofisiologici attraverso i quali elaboriamo nozioni, competenze e abilità. Lo sviluppo delle Rete, inoltre, ci mette a disposizione una massa di informazioni e la possibilità infinita di scambiarle, mai viste prima. Possiamo metterci in contatto e spesso dialogare con esperti di ogni settore della conoscenza, un tempo irraggiungibili.
Ha osservato Giovanni Floris che gli insegnanti «vivono la straordinarietà dello spazio-tempo scolastico senza poter condividere questa fortuna. Loro sanno di essere protagonisti della fase più unica ed eccezionale della nostra vita, ma sanno anche che noi lo capiremo molto tardi e forse mai. (…) E l’importanza della dimensione in cui operano non verrà, quindi, mai riconosciuta davvero. Sono i classici supereroi, insomma. Vivono in incognito la missione più fondamentale e più rischiosa, mascherati da persone qualsiasi».
La scuola deve rispondere
Su un punto siamo tutti d’accordo: la scuola è chiamata a rispondere in prima persona su questo tema e se crediamo nella possibilità di crescita di un Paese, non dobbiamo smettere di scommettere sull’insegnamento. Non sono poche le soluzioni che sono state suggerite nel corso degli ultimi anni, anche in relazione alle dinamiche e alle vicissitudini dei nostri tempi. Nelle società occidentali regna il presente, “l’ora e subito”, una superficialità dettata dall’atomizzazione dei corpi che le costituiscono. Il presentismo – direbbe Giuseppe De Rita – porta a non affrontare mai nessun tema complesso in modo articolato, come si dovrebbe, bensì a cercare la soluzione semplice, veloce, per certi versi magica.
Recuperare la dimensione dell’ “attesa”
È un processo che domina il dibattito culturale e le dinamiche quotidiane anche per colpa di un dato sempre più allarmante: la progressiva pauperizzazione del linguaggio, l’inarrestabile progresso dell’analfabetismo funzionale, quello di chi legge e scrive, «ma non è in grado di collegare tutto ciò e usarlo nella vita quotidiana e nelle relazioni con gli altri». Come ha sostenuto più di una volta il fondatore del Censis, «si tratta di milioni di uomini e donne che risultano incapaci di intervenire attivamente nella società e nella politica».
Fondamentale è il recupero della dimensione dell’“attesa”, che vuol dire impegno e fiducia nella costruzione del futuro. L’attesa è azione. E in questa prospettiva sono pertinenti due belle citazioni. Una di Descartes: «Quando le cose non vanno come desideriamo, più che cambiare il mondo, ognuno di noi inizi a cambiare se stesso»; l’altra di Camus: «il senso della vita è resistere all’aria del tempo».
Serianni: ridurre il “grammaticalismo”
Torniamo ai nostri ragazzi. Luca Serianni, storico della lingua italiana e vicepresidente della Società Dante Alighieri che ha dedicato, negli ultimi anni, diverse riflessioni all’insegnamento dell’italiano e delle discipline umanistiche nelle scuole secondarie, sottolinea un aspetto rilevante dell’insegnamento dell’italiano, ossia quello dell’uso della lingua relativamente all’argomentazione: saper scrivere e saper parlare come condizione per l’espressione ordinata e comprensibile del pensiero.
Ho trovato assai convincente la sua considerazione secondo la quale l’insegnamento dell’italiano nelle scuole secondarie dovrebbe concentrarsi principalmente sulle competenze argomentative e sulla ricchezza lessicale, riducendo lo spazio al grammaticalismo dei manuali (a mio parere comunque utile). Serianni suggerisce di non sprecare energie sulla classificazione delle forme grammaticali ma, ad esempio, di svolgere in classe il commento ad un editoriale di un quotidiano nazionale, al fine di meglio interiorizzare e comprendere le strutture argomentative utilizzate dall’autore. La centralità riconosciuta alla strutturazione dell’argomentazione nell’insegnamento dell’italiano, soprattutto nelle scuole secondarie di primo grado, aiuta ad esercitare la pienezza dei propri diritti: il cittadino del futuro deve sviluppare le competenze inerenti all’espressione strutturata, chiara e comprensibile delle proprie idee.
Riassunto e commento meglio del tema
In questo senso, risultano assai preziose le indicazioni didattiche: ai fini della valutazione il riassunto e il commento sono molto più importanti del tema. Il tema – seppur utile perché spesso sollecita quel parlar di sé, quell’egocentrismo che, più immediato negli adolescenti, aiuta a conoscere i ragazzi – dovrebbe lasciare spazio allo scritto tipicamente argomentativo, «in cui sviluppare una tesi in base a riflessioni personali o commentare opinioni altrui». Il riassunto aiuta a misurare la capacità di capire un testo dato, «di coglierne la salienza informativa, di renderlo in forma linguisticamente efficace». A differenza del tema che talvolta diventa una sorta di pagina di diario – di blog bisognerebbe dire oggi – «promossa a prova scolastica». Si continua, tuttavia, a dare poco peso alla logica argomentativa.
Appassionare alla lettura
Poco prima di morire Umberto Eco ebbe a dire: «chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito … perché la lettura è un’immortalità all’indietro». Queste considerazioni, talvolta, i ragazzi le fanno proprie, le comprendono adeguatamente soltanto con il tempo. Intanto, facciamoli leggere. Capirai domani, ci veniva spesso ripetuto quando eravamo giovani. Al primo anno delle superiori l’insegnante di italiano mi “impose” la lettura del romanzo di Silone Vino e Pane, che mi apparve noioso. Oggi posso dire di aver letto tutti i romanzi del grande scrittore abruzzese.
Diciamo subito che far appassionare alla lettura non è facile. Certamente aiuta avere un insegnante appassionato che a sua volta sa mostrare questa passione. Detto ciò siamo certi che corrisponda al vero l’assunto – trito e ritrito – secondo il quale nessuna passione può nascere da un’imposizione e che la lettura nella scuola in molti casi viene proposta come un compito o un qualcosa che deve essere fatto per poter ottenere buoni voti o risultati?
E imponiamo almeno due libri l’anno
Intanto, obblighiamo (o imponiamo, come si preferisce) agli allievi la lettura di almeno due libri l’anno (a prescindere dal genere). Spiegava Giovanni Solimine, docente alla Sapienza di Roma che «di solito chi ama i libri è anche una persona che va al cinema e a teatro, che usa il computer in modo creativo e intelligente, che fa sport. Chi non legge ha la sensazione di avere molti impegni. In realtà, subisce il tempo libero, passandolo davanti alla tv o attaccato allo smartphone. La vera differenza sta proprio qui: tra chi ha uno stile di vita attivo e chi no». Come rimediare? «Cambiando atteggiamento» suggerisce Solimine. Una mezz’ora in meno sui social è una mezz’ora in più per leggere.
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