A Milano da ieri fino a domenica 17 è in corso una autentica festa collettiva intorno ai libri e ai loro autori, BookCity (hashtag #BCM19). Con circa 1500 appuntamenti gratuiti, a ingresso libero fino ad esaurimento posti, tranne che non sia indicato un indirizzo di prenotazione nell’evento, con un calendario di incontri anche in case private.
Dalla gran messe di appuntamenti segnaliamo quello di sabato alle 18 all’Arci Mondino nella sezione “Raccontare le periferie” (clicca qui): introdotte da Cristina Di Canio, in un incontro organizzato con la Scatola Lilla, Valentina D’Urbano e Enrica Aragona discutono di “Sangue sporco” (Corbaccio, pp. 288, € 16,90), romanzo d’esordio della Aragona “sull’amicizia tra due bambine, due ragazze, due donne in una Roma violenta e marginale”, come la introduce l’editore. L’autrice è nata a Roma nel 1978 e ha già pubblicato racconti. Le protagoniste si chiamano Scilla e Renata. Del libro pubblichiamo un estratto del prologo su gentile concessione dell’editore.
Il sito di BookCity MIlano
Enrica Aragona: Ventuno anni, undici mesi e diciotto giorni per capire
Ventuno anni, undici mesi e diciotto giorni.
Il tempo che mi è servito per accettare che non ci sia stato
nessun lieto fi ne, che nessuno sia vissuto felice e contento. Il tempo trascorso a condannare te soltanto per assolvere me stessa, a incolparti di peccati che non avresti più potuto scontare, come se tutto questo servisse davvero a sentirmi innocente. Come se rimanere sprangata dentro al mio rancore
ripetendomi mille e mille volte ‘passerà’, sapendo che non sarebbe passato proprio niente, servisse davvero a stare meglio. Finalmente però è arrivato il momento in cui ho capito che per stare meglio dovevo liberarmi di te, e che c’era un solo modo per farlo: perdonarti.
Sono sicura che se mi avessi vista poco fa, mentre mi aggiravo tra i frigoriferi di quella pasticceria con l’aria stranita di chi si sentiva fuori posto e fuori tempo, avresti pensato ecco la solita scema. E proprio come una scema ho passato in rassegna torte con auguri e nomi già scritti, immaginando la sbronza che si sarebbe presa Bianca per festeggiare la laurea, e il faccino paffuto del neonato Lorenzo a cui i nonni davano il benvenuto. Ci ha pensato la commessa a ricordarmi che quelle storie non mi appartenevano: avevo già la mia, di storia, e non c’erano né laureati da celebrare, né bebè da salutare.
«La posso aiutare, signora?»
«Cercavo una Sacher, per un compleanno, ma non ne vedo.»
«A luglio non le facciamo. Fa troppo caldo, il cioccolato si squaglia subito. Se vuole un dolce al cioccolato abbiamo dei semifreddi.»
Ho scosso la testa, gironzolando ancora tra le vetrine: dovevo comprare una Sacher, non un qualunque dolce al cioccolato. Alla fi ne, ho preso un’inutile torta alla frutta, e nonostante mi sentissi davvero un po’ scema, anche le candeline. «Vanno bene quelle a forma di numero?»
«No. Vorrei proprio le candeline. Rosse, magari.»
«Abbiamo anche quelle che si riaccendono da sole dopo aver soffiato.»
«No, per carità. Me le tirerebbe dietro, se potesse. Vanno bene quelle classiche. Normali, insomma. Esistono ancora, no?»
«Quante?» ha chiesto, sparendo sotto il bancone.
«Quarantacinque» ho risposto, a voce bassa.
E così mi sono ritrovata a infilzare ridicole candeline rosse su ogni pezzetto di albicocca, ogni spicchio d’ananas, ogni chicco d’uva, come se riempiendo per bene ogni spazio di questa torta, potessi non accorgerti che sotto c’è la frutta anziché il cioccolato. Come se la scema fossi tu.
Peccato che quando arriverò da te nessuno mi chiederà come mai, durante tutti questi anni, non sia mai passata a farti gli auguri: mi sono preparata un discorsetto che è la fine del mondo. Una sparata filosofica sul destino che si conclude in un’alzata di spalle, una di quelle cose che ti sbattono in faccia un bel ‘ma sai quanto me ne frega, a me?’
Potrei ingannare chiunque, mica sarebbe difficile: sono anni che mi alleno a mentire, e sono diventata talmente brava che alla fi ne ci credo perfino io, alle puttanate che racconto.
L’unica che non potrò ingannare sei proprio tu, perché sai che se non sono tornata da te prima d’ora è solo perché ero incazzata. Incazzata e delusa. Finché ho capito che non era la delusione a farmi male: come può deluderti qualcuno che non promette mai? A farmi male ero io, erano le balle che mi raccontavo per odiarti, perché un’imbecille come te meritava solo di essere odiata.
Poi qualche tempo fa, quando ormai ero convinta di averti seppellita sotto più di ottomila giorni di rimpianti, Serena ha ritrovato la nostra polaroid incartapecorita e con la sincerità killer dei suoi sette anni mi ha chiesto: «Mamilla, chi è questa bruttona?»
È stato allora che mi sono accorta di averti perdonata. E di aver perdonato me stessa per non essere stata capace di odiarti.
Ventuno anni, undici mesi e diciotto giorni per capire che è sempre questa la storia di chi sopravvive.
Così oggi il tuo compleanno lo festeggerò da sola, seduta su una lapide impolverata, con una stupida torta alla frutta che marcirà sotto il sole e quarantacinque candeline rosse su cui nessuno soffierà.
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