«Assistiamo a una escalation del “cattivismo”, è un vaso di Pandora da cui escono fuori tutti i mali e fa presa per lʼincapacità di guardare gli altri. La disumanizzazione è feroce». Lo pensa Chiara Ingrao, che ha pubblicato il romanzo Migrante per sempre (Baldini + Castoldi, pp. 416, euro 20). Il racconto si dipana lungo decenni e sulle vicende di una donna reale: bambina in Sicilia, la madre emigra e la ragazza soffre per quella rottura, finisce in collegio, studia, un giorno emigrerà lei stessa in Germania. Lavora in fabbrica, ritornerà in Italia, a Roma, in una realtà che non sarà più dolce del freddo inverno tedesco. Assisterà malati, questa donna reagisce allo sfruttamento con le armi della battaglia collettiva, della consapevolezza. E Chiara Ingrao narra una crescita accompagnando il suo personaggio lungo le speranze, le amarezze, aderendo alla lacerazione affettiva da luoghi e persone che provoca lʼemigrare, sia da bambini che da adulti, perché il futuro è altrove, quando ci si scontra con un razzismo sottaciuto. Lungo le sue pagine Chiara Ingrao esercita una profonda adesione, pelle a pelle, mimetica, con i sentimenti e non solo con i pensieri di Lina rendendo fisicamente palpabile un cammino accidentato e caparbio tra gli inciampi del lavoro, gli affetti, un senso di umanità radicato nel profondo.
La scrittrice è anche animatrice nelle scuole, è stata sindacalista, interprete, parlamentare, programmista della radio, è femminista, pacifista. A 70 anni Chiara Ingrao è al suo terzo romanzo. E qui parla di Migrante per sempre , della figura di Lina, infine ricorda con amore il padre, Pietro Ingrao (1915-2015), uno dei più amati riferimenti del Partito Comunista, della sinistra, del pacifismo, di crede in ideali di giustizia sociale e culturale.
“Migrante per sempre” è ispirato a una persona reale.
Sì, a una donna che ho incontrato alla presentazione di un mio libro precedente, era una storia di fabbrica. E lei che nel romanzo chiamo Lina intervenne dicendo che era importante raccontare storie di fabbriche e che lei aveva vissuto quellʼesperienza in Germania. Mi ha molto incuriosita, ci siamo incontrate, le ho chiesto se le andava di raccontarmi la sua storia perché forse avrei potuta scriverla. E lei lʼha raccontata.
Insieme ai fatti accaduti cʼè anche invenzione?
Una parte è di invenzione: è servita a liberare lʼimmaginazione e a mettermi dentro alla storia più a fondo rispetto a un racconto dove devi essere fedele alla cronaca. Romanzare ha consentito un maggiore coinvolgimento emotivo. Ho inventato soprattutto nellʼimmaginare i dialoghi.
Cosa lʼha colpita della storia di questa donna?
Aspetti diversi. Uno è legato al titolo. Lina ha incontrato nella sua vita la migrazione da tantissimi punti di vista, è una costante nella sua vita. Prima la incontra come separazione dai genitori. Suo papà deve affrontare un passaggio della frontiera da clandestino identico a quelli di oggi. Poi incontra la migrazione come strappo doloroso dalla madre e con le difficoltà di una bambina a fare i conti con quel misterioso mondo lontano dove è la madre di cui non sa niente, la Germania. Poi affronta il passaggio da migrante lei stessa ed è come una violenza perché non vorrebbe partire. Ancora, si sente migrante in Italia perché non può tornare alle origini. È la realtà di tutte le migrazioni, le origini si perdono per sempre. Per di più lei torna a Roma che, se possibile, trova meno accogliente della Germania. Almeno nella nuova città trova altre migranti che la aiutano, a volte anche in modo duro, a fare i conti con sua realtà di migrante. Sono fatti veri.
Che donna è la figura a cui si è ispirata per raccontare Lina?
È una donna generosa, lei come il marito. La sua svolta è stata lʼincontro con le Acli, con lʼimpegno sindacale. È una persona che dona tantissimo. A un certo punto loro due hanno scelto il dono, lʼaffido, unʼesperienza in parte positiva ma non del tutto idilliaca. Non è tutto semplice. Nella vita di una sola persona si sono concentrati tanti volti della migrazione e passaggi storici, è un riassunto dal passaggio dallʼItalia dei migranti allʼItalia degli immigrati.
Nella vicenda individuale, più privata, cosa ha ritenuto più significativo?
Altri due aspetti senza i quali non avrei scritto un romanzo. Il primo è la relazione con la madre che è difficile e rimane irrisolto per tutta la vita anche se lo affronta. Rimane un punto dolente. Come scrittrice la relazione madre-figlia mi prende molto e rimanda alla realtà, alle donne migranti di oggi, a un aspetto poco raccontato: la lacerazione delle figlie che non ti riconoscono più. Infine, mi ha colpito la determinazione fortissima a trovare una strada autonoma. Ad esempio quando Lina si appassiona allo studio, quando vuole imparare lʼitaliano e tutto il paese nella sua Sicilia parla dialetto. E poi sogna una realizzazione professionale: a lei non basta un lavoro, vuole avere un lavoro che dà un senso anche quando le dicono sei una “pulisci – culi”. Questa donna è riuscita a costruire un percorso autonomo, è diventata sindacalista, è entrata nel cda della cooperativa nella quale ha introdotto tante cose positive. Pur con tanta sofferenza ha perseguito un suo percorso di libertà. Una gran forza dʼanimo.
Perché come linguaggio ha usato il siciliano misto a italiano?
Non sono siciliana. Ho scritto un romanzo, non un trattato, per raccontare con lo sguardo di unʼaltra donna mettendo anche emozioni mie. Questa donna nella prima parte della sua vita ha vissuto immersa nel dialetto. Era necessario entrare in quel pensiero e le frasi più pregnanti dellʼinfanzia, gli episodi più significativi, li ha punteggiati in dialetto. Era una scelta letterariamente necessaria. Pur se difficilissima. Mi ha aiutato molto lei stessa sia a trascrivere le frasi sia mettendo o verificando le parole. Camilleri scrive in un italiano sicilianizzato o in un siciliano italianizzato, io ho messo assonanze per far sentire al lettore, e prima ancora a me stessa, che si viveva nel paesino siciliano. Inoltre serve a far sentire la conquista dellʼitaliano per lei così importante. Ho azzardato molto, so di aver sbagliato qualcosa però finora i siciliani mi hanno perdonato.
Parla di emigrate italiane mentre adesso una parte dellʼItalia respinge gli immigrati.
Cʼè una rimozione fortissima della nostra emigrazione ancor più di quella in Europa rispetto allʼAmerica o allʼArgentina: è singolare perché lʼemigrazione italiana è ripresa con cifre analoghe verso gli stessi paesi di allora come la Germania.
Sul no allʼimmigrazione leader come Salvini e Giorgia Meloni fondano molto del consenso.
La loro obiezione è che allora emigravamo perché cʼera lavoro. In realtà non è così vero. Quando racconto degli italiani clandestini non invento, il tema delle frontiere chiuse esisteva anche quando i paesi avevano bisogno di manodopera migrante. Qua assistiamo a una escalation del “cattivismo”: se dici “morto un migrante pazienza”, poi ne sono morti cento, pazienza, poi mille, è un vaso di Pandora da cui escono fuori tutti i mali. Questo “cattivismo” fa presa per lʼincapacità di guardare. Non a caso la popolazione di Lampedusa non si è disumanizzata: ha guardato in faccia chi arriva. La cosa più feroce è la disumanizzazione: non li vogliamo e chiudiamo occhi di fronte alla loro realtà umana. Non sappiamo quanti ne muoiono. Per me raccontare storie di noi migranti di ieri è un tornare alla dimensione individuale di sofferenza. Ma il mio non è un libro sulla migrazione, è un oggetto letterario.
Infine una domanda personale: sulla sua vita quanto ha inciso suo padre Pietro Ingrao?
Sulla mia sua visione del mondo ha inciso tantissimo, sulla scrittura non direi. Lui scriveva poesie. Su di me hanno inciso tantissimo mia madre, nonna, zia: sono cresciuta in un mondo di donne forti, belle figure, appassionate. Mio padre avrebbe solidarizzato con i migranti. Mia nonna Gemma Harasim aveva il padre che veniva da Praga, un fratellastro che parlava croato, sposò un siciliano, per lei vivere a Catania fu una migrazione. E il nonno di mio padre, un mazziniano, veniva da un paesino vicino a dove sta Lina. Quanto a me, ho sposato un inglese mezzo irlandese, mia sorella ha in affido e adottato una ragazza, ora donna, dalla Costa dʼAvorio, la mia formazione è legata anche allʼincontro con palestinesi e israeliani, allʼaver fatto lʼinterprete. Lo scambio con il mondo è tutto una ricchezza. Sentire quellʼodio di cui parlavamo è una lacerazione. Quindi la storia familiare incide ma perché era ed è una tribù con al centro la madre, le nipoti, la nonna. Sarò sempre grata alla vita per aver avuto il padre che ho avuto ma anche per la madre: lʼinfluenza materna è stata più forte. E tutto questo è stato rafforzato dal fatto che miei genitori si amavano tanto in una relazione molto paritaria. Lui la ascoltava molto.