Francesca Fradelloni
È tutta colpa dell’Europa. E come se ci fosse la convinzione, che oggi le partite nazionali si giochino altrove, in Europa appunto. Siamo diventati tutti antieuropeisti e sovranisti?
Partirei da qui, per comprendere l’aria politica che spira un po’ ovunque, nel mondo. Partirei da un piccolo libro, scritto da un bravo antropologo. Il libro si intitola “Sardi, italiani? Europei?” ed è scritto da Giacomo Casti (Meltemi Edizioni – Milano, pp. 328, 24 euro). Fa parte di una collana curata dall’antropologo milanese Andrea Staid. Collana molto interessante, in cui si trovano testi di Jean-Loup Amselle, Pierre Bordieu, Marc Augè, Edward W. Said, Arjun Appadurai, Slavoj Zizek, Serge Latouche, Marco Aime e Franco La Cecla.
Dentro queste pagine, questioni che meritano un’urgenza e che oggi sarebbe sbagliato sottovalutare. È un dibattito che bisogna continuare a mantenere vivo.
Anche perché si sta generando una sorta di confusione tra l’esigenza sacrosanta di ricostruire la sovranità popolare e la capacità della politica di regolare le contese del mercato.
E allora bisogna evitare il pericoloso rischio di una reviviscenza della nazione come ricerca e difesa di un’identità. E come se il concetto di “nazione” sia diventato una categoria liberatoria, poi regolatrice, difensiva del tempo e degli spazi di fronte agli sconvolgimenti epocali. Perimetrare confini e definire identità ha una funzione rassicurante. Ma attenzione, limitante. Soprattutto se tutto questo avviene entro il quadro semplificativo delle appartenenze nazionali. Proprio perché, oggi più che mai, è cambiato il mondo. E allora ad aiutarci nel difficile orientamento concettuale la questione sarda, che porta comunque dentro di sé un linguaggio universale di domande e quesiti identitari. Una utile chiave di lettura al vento nazionalista.
Il titolo è una piccola provocazione
Il titolo è una piccola provocazione, con quel punto interrogativo a mezza via, che parte da una triplice identità. O triplice appartenenza. Una definizione sentita dalle parti della Sardegna. Forse perfino abusata. “Eppure – racconta Giacomo Casti – da Emilio Lussu a Giuseppe Dessì, da Antonio Gramsci a Sergio Atzeni, non c’è grande scrittore, pensatore o intellettuale sardo che non si sia confrontato con questa definizione. E in qualche modo, ognuno a suo modo, vi si sia accomodato, con accenti diversi”. All’interno del suo antifascismo Emilio Lussu, in uno schema di classe Antonio Gramsci, con un’intonazione più europeista Giuseppe Dessì, dentro una personalissima visione di impianto cristiano-libertario lo scrittore Sergio Atzeni.
Il senso del volume è quello di utilizzare alcuni strumenti dell’antropologia per provare a produrre un libro che possa incuriosire a temi come le identità, la politica, la cultura di un popolo. Attraverso la formula della conversazione (sono tredici, con scrittori, intellettuali, artisti), dell’intervista non strutturata.
Si inizia con l’antropologo Giulio Angioni (morto l’anno scorso). Si parla di Europa. In primis, bisogna domandarsi cosa significa essere europei oggi, dice. “Un vantaggio, in questa messa in discussione, si intravede, per piccolo che sia. Cioè che la situazione, in Europa e nel mondo, in questi anni di crisi, sta avendo per riflesso di porci il problema dell’Europa e dell’essere e come essere europei. Finalmente i problemi, relativi alla crisi o no, vengono visti in ambito europeo. E’ un pensare all’Europea in negativo, sì, ma è un pensare geo-politicamente più ampio, un passo in avanti rispetto al Roma ladrona e Sardigna natzione”. Quello italiano, insomma, è diventato un problema europeo, e l’Europa è diventato un problema italiano. “Io tornerei all’inizio – afferma Angioni – al fatto che la nostra massima appartenenza oggi è quella di sentirci e voler essere occidentali. Questo è il tratto identitario che considero fondante, nel bene e nel male, per l’uomo sardo della strada come per il cattedratico professore di storia”.
Identità, identico, appartenenza
Un tratto che viene spiegato partendo dalla parola identità, secondo la scrittrice Michela Murgia. Parola che, etimologicamente, ha la stessa radice della parola identico, per cui si tende a costruire delle proiezioni di sé che ragionano per similitudini, come: è mio quel che mi somiglia. Oppure: fa comunità quello che ha con me in comune una serie di marcatori identitari, come la lingua, l’aspetto fisico, la religione, gli usi e i costumi, le abitudini alimentari e così via. In sostanza, mi riconosco e riconosco l’altro per similitudine, somiglianza. “Ecco, a ben pensarci, questo meccanismo ha devastato il Novecento, e ha costruito muri, non ponti. La natura umana è una natura pontificale non è una natura da muratori”, dice la Murgia. Quel tipo di sentimento che ci fa dire che è comunità solo quello che ci somiglia. E che di conseguenza, tutto quello che ci è dissimile, ci è nemico, ci minaccia. Non può definirsi sardità. Sardità è appartenenza. Parola più inclusiva. Meno soffocante. Perché non presume di riconoscere l’altro sulla base di marcatori netti e codificabili, ma sulla base della volontà. “Io non posso decidere dove nascere e cosa mi forma; lo faccio fino a un certo punto, ma in parte siamo determinati dalle condizioni in cui veniamo al mondo. Non abbiamo alcun merito di essere sardi, è evidente, però deve esistere un passaggio della maturità politica ed esistenziale in cui tu decidi che il luogo in cui non hai scelto di nascere diventa tuo. Oppure non lo diventa e te ne scegli un altro. L’appartenenza ovviamente è molteplice; tu dici sardi, italiani, europei, ma io ti posso dire di essermi sentita a casa mia in Germania, come in Messico. Siamo tutto quello a cui scegliamo di appartenere”, conclude l’autrice della “Accabadora”.
“Sardo? Italiano? Europeo? No, un uomo”
Francesco Abate, scrittore di successo, altro intervistato, alla domanda “sardo, italiano, europeo”, risponde: “Nessuno, nessuno di questi. Uomo. Insomma, qual è la distinzione che mi fa dire io mi sento europeo, o africano, o mediterraneo? Non la vedo, non riesco a dare una risposta precisa. Mi sembra che sia una convenzione, più che un sentire comune. Cosa ci fa sentire europei, noi sardi o chessò… noi abitanti di Ibiza? O noi abitanti di Strasburgo?”.
Per Marcello Fois, scrittore tradotto in 14 lingue, commediografo e sceneggiatore nuorese di nascita e bolognese di adozione, delle tre strutture la più problematica, paradossalmente, è proprio quella della sardità. “Perché in quella dell’europeità sono disinvolto, nel senso che ho sempre pensato agli spazi a crescere, piuttosto che a diminuire, e l’europeità mi pare quindi un dato acquisito. E sull’italianità mi sento, come dire, intellettualmente attrezzato, anche perché ritengo che la nostra storia, di diritto, ci faccia italiani dentro questa nazione, quindi non la sento proprio come discutibile, una nozione come questa. Siamo italiani perché abbiamo firmato col sangue il nostro certificato di residenza in questa nazione e, adesso, questa nazione è anche nostra”. E allora cosa ci rimane dell’identità? A detta di scrittori e studiosi, ci rimane il culto della memoria, la trasmissione della propria memoria. Però come ogni buon pianista, per suonare − anche per suonare la memoria − bisogna esercitarsi. Anche per suonare la memoria ci vuole un bel po’ di allenamento, di disciplina e di fatica. E sicuramente di nessuna semplificazione del reale.