Edoardo Albinati, scrittore, insegna nella prigione di Rebibbia a Roma e collabora da tempo con l’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. È bene premetterlo quando si dà notizia del libro appena pubblicato “Cronistoria di un pensiero infame” (Baldini + Castoldi, pp. 109, euro 22) dal romanziere (tra cui “La scuola cattolica” nel 2016, vincitore del premio Strega), saggista, poeta, sceneggiatore, traduttore. È bene premetterlo perché tratta materia incandescente.
Qual è il pensiero infame da cui scaturisce il pamphlet? “Sapete, sono arrivato a desiderare che morisse qualcuno, su quella nave. Ho desiderato che morisse un bambino sull’Aquarius”. Lo scrittore lo disse il 12 giugno alla presentazione a Milano del reportage suo e della sua compagna Francesca D’Aloja “Ottogiorni in Niger”. Albinati reagiva alle parole sprezzanti di Salvini che non volle far sbarcare in Italia la nave Aquarius con 630 persone, compresi 140 bambini e ragazzi e sette donne incinta, salvate nel Mediterraneo a 35 miglia dalle coste della penisola. “I migranti stanno in crociera, sbarcheranno da qualche parte, qui mai più”, affermò, sprezzante, mentendo (“in crociera” non rischi la pelle per annegamento) il titolare del Viminale.
Salvini ottenne moltissimi consensi (e molti dissensi). La nave non poté attraccare in Italia, in barba alle sofferenza e al bisogno di chi era stato soccorso, e andò in Spagna.
La provocazione di Albinati generarò reazioni a catena sul web, contumelie in quantità industriale. Lo scrittore ha ritenuto indispensabile una riflessione. Non tanto per difendersi. “Non voglio difendermi. Non sono difendibile. Quello che ho pensato è indifendibile – scrive nel libro – Augurarsi la morte di un altro essere, per di più innocente, è una posizione indifendibile. Sempre e comunque. Vorrei però spiegare, spiegare e così io stesso capire, il perché quella cosa lì, dopo averla pensata (forse per cinque secondi? dieci?), io l’abbia anche detta, l’abbia riferita ad altri in modo brutale ed esplicito, e così difendere il mio diritto o piuttosto il mio dovere di confessare una cosa inconfessabile, una cosa infame da me pensata”. E ancora: “Volevo confessare a che punto era arrivato il ragionamento reso incandescente da quell’emergenza, ma al tempo stesso freddo, appuntito, cinico, logico, spietato. La Realpolitik brutalmente applicata dal ministro di Polizia aveva generato un pensiero altrettanto brutale, il mio, con l’intenzione di raddrizzare di colpo la bilancia. Era arrivato il momento buono di confessarlo”. Vergognandosi poi per il suo pensiero “infame”, “non per averlo detto”.
Albinati ha confessato di aver pronunciato quelle parole “per avventatezza, perché mi sono accalorato contro un’ingiustizia, e contro me stesso che pensavo di rimediarvi e controbilanciarla con un’ulteriore ingiustizia”. Ha chiarito che non desiderava quanto aveva detto, ma quel pronunciamento, ha dichiarato, è pura ingenuità se vuole dissuadere qualcuno dall’essere feroce. Piuttosto dimostra “il punto a cui si arriva, senza ipocrisia, la bassezza di cui si è capaci. Di cui sono capace”. Ecco dunque a cosa ambisce Albinati: a portare a galla la bassezza e i pensieri infami che possono albergare anche in chi non la pensa assolutamente come i respingitori di professione e tanto meno come gli odiatori della tastiera. È un libro che vuole e fa discutere. A partire a se stessi.
Aquarius, il saliscendi dei migranti dalle navi a 1400 km da Valencia