Nella penna di Gianluca Barbera Darwin sta con gli sfruttati

Pubblichiamo “Darwin e le miniere d’oro di Yaquil”, inedito scritto per globalist.it da Barbera per l’uscita del suo romanzo “Magellano”

Nella penna di Gianluca Barbera Darwin sta con gli sfruttati
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31 Luglio 2018 - 16.00


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Un giovane Charles Darwin, nel suo viaggio intorno al mondo che lo porterà a elaborare la teoria dell’evoluzione della specie, in una tappa in Cile si imbatte in un signore molto civile ma dai risvolti tutt’altro che ammirevoli. È uno sfruttatore di minatori. Immagina questa vicenda, ispirata al “Viaggio di un naturalista intorno al mondo” del naturalista e biologo, che svela un Darwin a cui siamo poco abituati, Gianluca Barbera, nel racconto che ha scritto appositamente per Globalist.it “Darwin e le miniere d’oro di Yaquil”

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Barbera, autore del romanzo “La truffa come una delle belle arti” (2016) e del saggio “Idee viventi. Il pensiero filosofico in Italia oggi” (2017) ha scritto questo testo in accordo con Castelvecchi editore in occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo “Magellano” (Castelvecchi, pp. 204, euro 17.50). Mentre nel racconto lo scrittore racconta la circumnavigazione dello scienziato, nel romanzo affronta la prima circumnavigazione del globo, partita nel 1519 da Siviglia, sotto il comando di Ferdinando Magellano, attraverso la voce “di Juan Sebastián del Cano, tra i pochi a fare ritorno in patria a bordo dell’unico veliero superstite, il quale si attribuirà il merito dell’impresa infangando la memoria di Magellano, rimasto ucciso nell’oscura isola di Mactan (nelle Filippine) in circostanze drammatiche”, come ricorda la nota editoriale parlando di “un viaggio non solo fisico ma anche dell’anima”.

 

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“Darwin e le miniere d’oro di Yaquil” di Gianluca Barbera

Una settimana dopo ci infilammo in un braccio di mare che si insinuava tra possenti montagne dalle cui pareti si staccavano enormi blocchi di ghiaccio che scivolavano in acqua prendendo il largo, alla deriva. Iceberg alti e spettrali come la cattedrale di Westminster. Alcuni raggiungevano cinquanta metri di altezza e rappresentavano il terrore dei naviganti. Per valli e canaloni lungo i versanti più scoscesi vedevo fiumi di ghiaccio scendere verso il mare con un rumore assordante. A mano a mano che i blocchi precipitavano dai dirupi producevano un rimbombo così cupo da gelare il sangue: parevano cannonate sparate da una nave da guerra. Senza contare che tuffandosi in acqua sollevavano enormi cavalloni che si abbattevano sulle coste spazzando via ogni cosa. Dopo una mezza giornata di perlustrazione in quelle acque gelide il capitano FitzRoy diede ordine di invertire la rotta. Riprendemmo il largo e sei giorni dopo gettammo l’ancora nella rada di Ritoque. Fu calata una scialuppa e alcuni di noi scesero a terra. Ci trovavamo non lontani dalla baia di Valparaiso. Presso un ranch gestito da un inglese di nome Ben Connelly noleggiammo dei cavalli e ci inoltrammo nella pianura sterminata, senza però allontanarci troppo dalla costa. L’aria era di una lucentezza senza eguali. Presto il sole sarebbe tramontato. Cavalcammo verso nord, in direzione dell’hacienda di Quintero, dove avrei potuto esaminare grandi giacimenti di conchiglie situati parecchi metri sopra il livello del mare e che da quelle parti vengono trasformati in calce. A metà strada scorgemmo in lontananza un’enorme nube rossastra proveniente da est, che pareva avanzare verso di noi a gran velocità. La prendemmo per il fumo prodotto da un vasto incendio. Ma quando fummo più vicini ci accorgemmo che si trattava di uno sciame di locuste, diretto verso il mare. Sospinto da una favorevole brezza viaggiava, io credo, alla velocità di dieci o quindici miglia orarie, tenendosi a circa sei metri dal suolo, fino a raggiungere sei o settecento metri di quota. Nella zona di maggiore densità il cielo era completamente oscurato. Il frullare delle loro ali produceva un frastuono simile a quello di una carica di cavalleria. A tratti alcuni distaccamenti dello sciame si posavano sul terreno e allora l’erba da verde pareva farsi rossiccia. Da queste parti simili fenomeni sono piuttosto consueti, disse la nostra guida. I contadini se ne difendono come possono, accendendo fuochi, mulinando enormi randelli, scuotendo i rami degli alberi, gridando a più non posso. Ma è tutto inutile. Dove passano, le locuste lasciano il terreno spogliato di ogni cosa.
Per sottrarci a quell’esercito sterminatore piegammo verso sud e sul far della sera raggiungemmo le miniere d’oro di Yaquil, di proprietà del signor Nixon, un gentiluomo americano che ci accolse con ogni riguardo offrendoci ospitalità per la notte. Cenammo alla sua tavola, ed egli si rivelò un amabile conversatore. La mattina seguente si offrì di farci visitare le miniere, situate sulla cima di una collina distante alcuni chilometri, che raggiungemmo a cavallo. Mentre ci avvicinavamo a uno degli ingressi principali vidi sbucare dal terreno una sagoma scura, che sulle prime mi parve un animale. Subito dopo ne vidi un’altra, e poi una terza, una quarta. Nel giro di pochi minuti ci trovammo davanti a una ventina di neri spettri sgusciati fuori dal ventre della terra. Cominciarono a scuotersi la polvere e il fango di dosso recuperando in breve l’aspetto umano. Si trattava di un gruppo di minatori che tornavano da una lunga permanenza nella miniera, a un centinaio di metri di profondità. Ogni uomo aveva sulle spalle un grosso zaino ricolmo di pietre. Dal capo dei sorveglianti, il signor Gallego, mi fu spiegato che con quella zavorra, del peso di almeno novanta chili, i minatori dovevano risalire in superficie arrampicandosi lungo le pareti verticali del pozzo, puntellandosi unicamente alle intaccature presenti nei travi fissati alle pareti del pozzo in modo da formare un’approssimativa scalinata a zig zag. Quando ci passarono accanto in silenzio, senza salutare, il capo chino, notai che erano di una magrezza da far impressione. Ne chiesi il motivo al signor Nixon. “È a causa della loro alimentazione, a base esclusivamente di pane e fave bollite” osservò lui senza preoccuparsene gran che. Poi aggiunse: “Fosse per loro mangerebbero solo pane, se non li obbligassimo a nutrirsi anche di fave”.
“Col lavoro che fanno dovrebbero nutrirsi meglio” osservai. “Che paga ricevono, se posso chiedere?”.
“La paga non è male” fece lui. “Di certo superiore a quella che normalmente viene corrisposta nelle altre miniere della zona”.
“Potrei sapere a quanto ammonta?”.
“Non vedo perché no. Alla fine del mese si mettono in tasca circa ventotto scellini a cranio”, disse Nixon soddisfatto.
Aggrottai la fronte. “Ora capisco”.
“Mi creda” fece lui indispettito, “da queste parti è una paga di tutto rispetto”.
“Se lo dice lei. E con quella dovranno pure mantenere la famiglia, immagino”.
Il mio commento non piacque al signor Nixon, che si rabbuiò.
“Per quanti giorni continuativi restano sotto terra?” lo incalzai.
“Ogni squadra fa turni di tre settimane” rispose controvoglia.
“Tre settimane senza mai vedere la luce?” dissi incredulo.
“Mister Darwin, non so che idee si sia fatto, ma le faccio notare che altrove è anche peggio. E in più, al termine delle tre settimane, concediamo loro due giorni interi di riposo per stare con le famiglie. Le assicuro che da nessun’altra parte troverà un simile trattamento di favore”.
Ero allibito dal modo di ragionare del signor Nixon. Ma mi resi conto che era inutile insistere. Aveva sviluppato una visione del mondo a prova di ragionevolezza, abbassando la soglia del buon senso a livelli primitivi. Devo confessare che i suoi modi da gentiluomo al principio mi avevano tratto in inganno. Ma ora non più. Del gentiluomo in lui non vi era nemmeno l’ombra.
“Vede” proseguì Nixon col tono di chi la sa lunga, “da queste parti si usa dire che chi possiede una miniera si arricchirà di certo se è di rame, forse se è d’argento… ma finirà in rovina se è d’oro”.
“Davvero sorprendente” feci, deciso a non bermi più alcuna delle sue fandonie. “E perché mai?”.
“Mio caro Darwin, i furti nelle miniere d’oro sono all’ordine del giorno. I minatori sono soliti nascondere i pezzi di minerali in posti sicuri per recuperarli alla prima occasione. Per questo abbiamo stabilito che, ogni volta che i sorveglianti trovano un pezzo nascosto, ne scalano il valore dalla paga dei minatori”.
Non potevo crederci.
“In questo modo finiranno per mettersi gli uni contro gli altri” osservai.
“Proprio così” ammise Nixon, “e saranno costretti a spiarsi a vicenda”.
“Un metodo discutibile, se mi è consentito” feci, al colmo del disgusto.
“L’unico che funziona” obiettò lui.
Tornati dalle miniere gli comunicai che avevamo visto abbastanza e che la mattina seguente saremmo ripartiti. Mi ripromettevo di denunciare quei sistemi scrivendone sui giornali al mio ritorno in Inghilterra.
“Lei è schiavo delle buone maniere, ma qui sono del tutto fuori luogo, mi creda” fu la sua risposta.
Avevamo da poco iniziato la cena quando si udirono dei latrati accompagnati da un ringhiare rabbioso provenire da più punti del villaggio minerario. Guardai gli altri ospiti sconcertato.
Poi si udì una raffica di spari.
“Che succede?” domandai quasi saltando sulla sedia.
Il signor Nixon mi fissò con un sorrisetto.
“Spesso di notte scendono dai monti branchi di cani randagi e i minatori li accolgono a fucilate. Vada pure a dare un’occhiata alla finestra, se vuole. Ma non le consiglio di sporgere il naso”.
Mi alzai e guardai fuori. Il villaggio sembrava letteralmente preso d’assalto da decine di cani che si aggiravano per le vie in cerca di prede.
“Sono così affamati che si mangerebbero il legno delle capanne” fece lui, come se si divertisse un mondo. “Si avventano su qualunque cosa si muova. Molti di loro sono idrofobi. Capita che qualche minatore venga morso e muoia tra i tormenti. Come saprà non c’è cura al morso di un cane idrofobo. Il primo caso di rabbia è stato registrato da queste parti nel 1803. Da allora la piaga si è diffusa a dismisura nelle valli circostanti. A volte non è necessario essere morsi: è sufficiente cibarsi di animali infetti. Ma la cosa peggiore è che la malattia, come saprà, si manifesta non prima di una dozzina di giorni. E le persone affette muoiono invariabilmente entro cinque giorni dall’insorgere dei primi sintomi”.
Concludemmo in fretta la cena e poi ognuno si ritirò nella propria stanza.
Per tutta la notte si andò avanti con quegli spari, tanto che non riuscii quasi a chiudere occhio. La mattina scesi dabbasso e prima di far colazione mi affacciai dal portone di casa. Vinto il timore, mi decisi a fare qualche passo per le vie del villaggio: contai almeno una cinquantina di cani stesi a terra, stecchiti.
D’un tratto mi sentii picchiare sulla spalla. Mi voltai: era il signor Nixon.
“Se vuole, questa mattina, prima che partiate, vi condurrò alle rovine di Tambillos”.
“Di che si tratta?” domandai.
“Potrete dare un’occhiata alle rovine di un antico villaggio indiano molto suggestivo”.
Malgrado la repulsione che ormai provavo per quell’uomo, accettai. I miei compagni non vollero saperne di unirsi a noi. Dopo una lunga cavalcata, io e il signor Nixon giungemmo a destinazione. Del villaggio restava in piedi ben poco, a parte qualche misera costruzione squadrata in pietra, per lo più semi-diroccata. Alcune conservavano la riquadratura dell’ingresso, sormontata da un architrave a meno di un metro dal suolo, segno che avevano avuto porte molto piccole. Avevo visto abitazioni simili in Perù. Là però venivano utilizzate dagli Incas come ripari di fortuna durante l’attraversamento delle montagne. Di colpo scorsi un’ombra sulla mia destra. Mi girai e vidi un indiano gigantesco avanzare verso di noi. Poco più in là ne vidi un altro, e poi ancora un altro, e un altro.
Erano perlomeno una dozzina e venivano verso di noi dondolando come sonnambuli.
Guardai il signor Nixon allarmato. Ma quello ricambiò il mio sguardo con una risata garrula.
“Non se ne preoccupi, non sono altro che spettri”.
“Mi prende in giro?” feci, deciso a rimetterlo al suo posto.
“Dico sul serio. Secondo la leggenda sono gli indiani sterminati dall’esercito cinquanta e passa anni fa. Appaiono ai visitatori per terrorizzarli, ma sono innocui, mi creda”.
Aveva appena finito di pronunciare quelle parole quando una smorfia di orrore gli sconvolse i lineamenti. Sulle prime non ne capii la ragione; mi ci volle qualche istante per accorgermi che una freccia gli aveva trapassato il collo da parte a parte. Mi voltai verso gli indiani. Uno di loro teneva in mano un arco e sorrideva beato.
“Tu puoi andare” disse. “Noi non avercela con te. Ma lui uomo malvagio. Ora vai”.
Non me lo feci ripetere. Montai sul cavallo e me la battei più in fretta che potei. Ma in cuor mio mi rallegravo di quanto era capitato al signor Nixon. In fondo aveva avuto ciò che meritava.

 

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Racconto pubblicato in accordo con Castelvecchi editore in occasione del romanzo di Gianluca Barbera “Magellano”, Castelvecchi, pp. 204, euro 17.50

 

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