Rock Reynolds
Dolore, distruzione, odio, sgomento, rabbia. Le notizie di ogni giorno traboccano delle più cieche declinazioni di ciascuno di tali concetti. Si cerca di insegnare ai giovani del nostro paese l’importanza della memoria storica, la capacità di cercare qualche spiraglio di verità e qualche lampo di senso tra le sfumatura delle brutture che hanno insanguinato il nostro paese nella Seconda Guerra e che ne hanno lacerato la convivenza civile forse per sempre. E, mentre lo si fa – in verità, senza grande successo – la storia seguita a consumarsi ripetitivamente intorno a noi, come se i disastri dell’ultima guerra non si fossero mai verificati, come se non se ne potesse davvero trarre qualche insegnamento duraturo. Come se quella guerra si fosse ormai perduta per sempre in un passato lontano, sbiadito. Ciò che si sta verificando in queste ultime ore in Siria lo testimonia in modo sconfortante.
Malgrado la distanza geografica e storica tra il conflitto siriano e le guerre nel Caucaso sia sostanziale, restano alcuni elementi tristemente comuni, come la posizione strategica della Turchia tra Caucaso e Siria e l’interesse altrettanto strategico che i blocchi contrapposti, ben prima dello scoppio della Guerra Fredda, hanno sempre mostrato per entrambi i territori. Complicate vicende storiche, spartizioni forzate, questioni religiose più o meno dirimenti hanno fatto il resto.
Amir Gut e suo figlio Arye, due cittadini israeliani di origine azera, hanno deciso di affrontare la questione di petto, scrivendo un romanzo corale sull’invasione del Nagorno-Karabakh da parte dell’esercito armeno e, in particolare, sul massacro compiutosi a Khojaly il 26 febbraio 1992, uno dei peggiori atti di pulizia etnica della fine del secolo scorso. Si tratta di un romanzo storico, con una storia d’amore tra due giovani di diversa estrazione e provenienza che si incontrano a Baku prima che la catastrofe si abbatta sulla popolazione azera. E la storia d’amore è proprio incastonata sulla vicenda drammatica della fuga di un popolo da una terra contesa, per giunta inframmezzato da frequenti pagine in cui gli autori espongono i fatti smettendo i panni dei narratori e vestendo quelli dei giornalisti. Naturalmente, si capisce presto da che parte stiano i narratori stessi: se avessero voluto scrivere un saggio più austero e distaccato lo avrebbero fatto e non avrebbero certo optato per un romanzo come Il dolore (Sandro Teti Editore, traduzione di Stefano Fronteddu, pagg 426, euro 18) che, comunque, rappresenta un tentativo appassionato di rappresentare un popolo troppo spesso dimenticato.
In occasione della presentazione del libro a Roma, Arye Gut ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande e non si è certo risparmiato, denotando un entusiasmo che è comunque sempre un buon segno.
Voi siete cittadini israeliani. Cosa ha scatenato la vostra curiosità per la regione dell’Azerbaigian e il suo conflitto con l’Armenia?
Ha ragione, mio padre ed io siamo cittadini a pieno titolo dello stato di Israele. Siamo israeliani, legati con amore ad Israele e al popolo ebraico, ma allo stesso tempo amiamo la nostra patria, l’Azerbaigian. Non lo possiamo dimenticare, come mio figlio Aviel non dimenticherà che suo padre e suo nonno sono nati nella “Terra del fuoco”. Mio padre Amir Gut ha lavorato per oltre 40 anni come regista di programmi su politica e società nella Tv azerbaigiana. Mio padre ha visto con i suoi occhi l’intera tragedia e il volto di questa atroce guerra, i risultati dell’occupazione dell’Armenia, il flusso di rifugiati azerbaigiani espulsi dalle loro terre. Io avevo 17 anni quando è scoppiata la guerra tra Armenia ed Azerbaigian, ero uno studente e tutti questi eventi sono stati terribili: la mia patria, un’isola di tolleranza e multiculturalismo, in cui noi ebrei siamo sempre stati parte integrante del popolo azerbaigiano, senza neppure sapere cosa fosse l’antisemitismo, ha subito l’occupazione e una guerra non dichiarata da parte dell’Armenia. Questo romanzo non è una curiosità, è un tentativo di mostrare al mondo che, nonostante la guerra e il dolore terribile, a vincere è l’amore per la vita, la patria, e le persone care.
Secondo lei, che cosa è così cruciale in quella zona geografica?
Il Caucaso meridionale è una regione di grande importanza, cruciale per la connettività tra l’Asia e l’Europa, una terra di diverse culture e ricchezza economica e risorse naturali, in particolare nel caso dell’Azerbaigian, che oggi è il motore dell’economia della regione e porta grandi progetti geopolitici e geoeconomici. È noto che attraverso la regione passa l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, strategico per Israele e per i paesi europei, e il Corridoio Meridionale del Gas, fondamentale per la sicurezza energetica europea, entrambi avviati dallo stesso Azerbaigian. Inoltre, lo scorso 30 ottobre, si è inaugurata la linea ferroviaria Baku-Tbilisi-Kars (BTK), una componente essenziale del percorso di trasporto internazionale Trans-Caspian e del progetto “Nuova Via della Seta”, su scala più globale. Penso che la regione e i paesi del Caucaso meridionale abbiano bisogno di stabilità, assenza di guerre e prosperità economica. Purtroppo, nella regione perdurano conflitti geopolitici che mettono in pericolo tutte le tendenze positive.
Provenendo da Israele ed essendo ben conscio di cosa significhi la parola “Olocausto”, qual è la sua opinione sull’Olocausto armeno? Dopotutto, a Erevan c’è un mausoleo che in qualche modo ci fa pensare allo Yad Vashem …
L’Olocausto è il dolore, la sofferenza, l’umiliazione, gli insulti, la brutalità, la barbarie, la distruzione di massa del popolo ebraico. Di recente, gli ebrei del mondo hanno onorato la memoria di sei milioni di ebrei innocenti uccisi. A quel tempo, pochi erano i luoghi in cui gli ebrei potessero nascondersi, fuggendo da questo orrore, barbarie e crudeltà. Uno di questi stati era l’Azerbaigian, che è stato sempre noto per il suo atteggiamento caloroso nei confronti degli altri popoli. Per la mia famiglia, l’Azerbaigian è diventato uno di quei pochi rifugi e una vera patria per i molti ebrei europei che hanno salvato la propria vita e quella dei loro figli dai nazisti. Per quanto riguarda il cosiddetto “genocidio armeno”, il mio paese non riconosce ufficialmente gli eventi del 1915 come un genocidio. Un tempo, il nono presidente di Israele, Shimon Peres, ha detto che non si può paragonare questa tragedia con la ben più terribile tragedia del popolo ebraico nella sua interezza. Condivido pienamente questa visione.
Perché avete deciso di scrivere un romanzo e di inserire pagine di storia e informazioni, piuttosto che scrivere un libro di storia?
Non avevamo intenzione di scrivere un libro storico, non abbiamo perseguito questo obiettivo. Volevamo scrivere un romanzo-documentario basato su eventi reali, in cui ci fosse una parte romantica ispirata alla mia vita, una parte ispirata alla vita di mio padre, il tutto collegato con il terribile massacro di Khojaly. Volevamo descrivere la storia dell’amore romantico di due giovani appartenenti a diverse nazioni e fedi. Abbiamo cercato di mostrare, attraverso i personaggi reali del romanzo, che ebrei e musulmani in Azerbaigian hanno sempre vissuto serenamente e continuano a vivere pacificamente, come fratelli, legati da storia e destino comuni. In quanto cittadino dello Stato di Israele, sono orgoglioso che, in Azerbaigian, il multiculturalismo e la tolleranza siano uno stile di vita. In questo stato non ci sono mai state persecuzioni, pogrom e non c’è mai stato antisemitismo. Allo stesso tempo, attraverso il destino del personaggio di Roja, abbiamo descritto realmente gli eventi, gli orrori che i terroristi armeni hanno commesso sui civili della città azerbaigiana di Khojaly. Ed è un dato di fatto, non abbiamo nessuna intenzione di nasconderlo, poiché mio padre ha visto in prima persona Khojaly un mese prima della tragedia e io, creando questo romanzo, ho incontrato insieme ai rappresentanti dei media israeliani testimoni reali di quella terribile notte del febbraio 1992 a Khojaly. Lo stile delle atrocità commesse da parte dei terroristi armeni a Khojaly nel 1992 ha molte somiglianze con quello utilizzato dall’Isis. Ecco perché per me gli eventi sanguinosi del genocidio nella città azerbaigiana di Khojaly rappresentano un dolore personale: questa è la mia tragedia personale.
Tra i vostri parenti ci sono state vittime dei fatti di quella fatidica notte?
Non avevamo parenti a Khojaly. Ma mio padre, come regista, diverse volte è stato in viaggio d’affari a Khojaly e ha filmato Durdana Agayeva, che lavorava all’epoca come centralinista. Il caso ha voluto che in uno dei miei viaggi con mio padre a Baku, durante gli incontri con i rifugiati, mio padre abbia riconosciuto Durdana di Khojaly, testimone di quella terribile notte. Nel nostro romanzo, uno dei capitoli particolarmente difficili è proprio il racconto della nostra Durdana. Leggetelo ancora. Non è invenzione, è un evento reale: la terribile tragedia di Durdana. Pensateci: aveva solo 20 anni quando le truppe dell’Armenia commisero uno dei più orrendi omicidi di massa nella recente storia dell’umanità, a Khojaly. Ha visto come hanno sparato ad un bambino azerbaigiano di due anni davanti ai suoi occhi, con i suoi genitori; donne in attesa di figli e anziani uccisi da colpi di fucile. Ha sperimentato un dolore inesprimibile dovuto all’incapacità di raccontare in pubblico l’umiliazione subita da parte degli armeni. Ma Durdana Agayeva in una conversazione con noi, ha detto che solo condividendo la sua storia potrà trovare conforto ed iniziare a guarire …
Può dire ai nostri lettori quale sia il ruolo storico della cosiddetta Albania Caucasica, di cui non sappiamo molto?
La Chiesa dell’Albania Caucasica è uno dei più antichi templi cristiani. Fu la prima chiesa nel Caucaso, fondata dall’apostolo Bartolomeo. Ufficialmente l’Albania Caucasica accolse il cristianesimo nel 213 d.C. e gli armeni, invece, solo in seguito, come scrisse il Catholicos Avraam nella sua lettera agli albani: “L’altare albanico, che fu prima del nostro armeno”. La cosa più importante che l’Impero russo concepì per gli armeni è stata la liquidazione della Chiesa apostolica albana. A seguito dell’occupazione del Caucaso meridionale da parte dell’Impero russo, nel 1836, lo zar Nicola I firmò un decreto per l’abolizione del Patriarcato della Chiesa apostolica albana in Azerbaigian e il trasferimento della sua proprietà alla Chiesa gregoriana armena. In questo modo l’Impero russo liberò le mani agli armeni che si appropriarono di quello che non gli era mai appartenuto.
Pensa che la religione abbia un ruolo nella violenza della zona? Dopo tutto, gli azerbaigiani sono musulmani e gli armeni sono cristiani …
Io sono nato nel Caucaso meridionale, a Baku, città di ricca diversità culturale in cui armeni, azeri e ebrei vivevano insieme come una sola famiglia. Dopo 26 anni di conflitto, basta guardare l’Armenia e l’Azerbaigian. L’Armenia è un paese monoetnico, dove vivono solo armeni. Se guardate invece l’Azerbaigian, il paese nonostante l’occupazione del 20% del suo territorio e un milione di profughi in cerca di pace e di prosperità, è divenuto una piattaforma per il dialogo interreligioso tra le civiltà. Quando cammini per Baku, nel centro della città puoi vedere una moschea, una chiesa, due sinagoghe, senza barriere della polizia. Quindi il fattore della religione in questo conflitto è infondato. Il fatto stesso che l’Armenia mantenga stretti rapporti con l’Iran è una prova del fatto che il conflitto non ha alcuna connotazione religiosa. Il conflitto nasce esclusivamente dalle pretese territoriali dell’Armenia contro l’Azerbaigian.
L’Armenia esce dal vostro libro sotto una pessima luce. Ho letto alcune pubblicazioni su questo paese e ho finito per ritenere che entrambe le parti abbiano il loro modo di raccontare la loro “verità”. So che questo può sembrare strano per voi, forse anche inaccettabile, ma un buon libro deve proprio fare questo: cercare di porre le cose in prospettiva attraverso fantasia e storia, una miscela meravigliosa. Cosa ne pensa?
Vorrei sottolineare che non avevamo l’obiettivo di mettere l’Armenia in cattiva luce. È chiaro che loro hanno “la loro verità”. La fantasia e la storia sono una miscela meravigliosa, ma questa non è un’opera di fantasia. Oggi in Israele, ci sono molti matrimoni di azeri-israeliani e famiglie miste, e la stessa cosa si può vedere in Azerbaigian. Tra ebrei e azeri c’è una fratellanza, anche se a molte persone in Europa può sembrare strano. In Azerbaigian c’è un eroe nazionale, l’ebreo Albert Agarunov, amato da tutto il popolo azerbaigiano. Per noi, Albert è il simbolo della fratellanza azero-ebraica, e non è una fantasia, ma una vera e propria realtà. Tutti i fatti che circondano l’orribile notte di febbraio a Khojaly sono avvenimenti reali, con documentari e video, testimoni, esperti e giornalisti stranieri che si trovava nella città azera di Khojaly, dove liunica colpa degli abitanti era il fatto di essere azerbaigiani. Le dichiarazioni dello stesso presidente attuale dell’Armenia Serj Sarkisyan, che ha partecipato di persona alla strage di Khojaly, gettano luce su dove risieda la verità. Nel libro del 2003 di Thomas de Waal sul conflitto del Karabakh, Black Garden: Armenia e Azerbaigian attraverso la pace e la guerra, alla domanda relativa alla strage di Khojaly, Sargsyan risponde: “Prima di Khojali, gli azeri pensavano di scherzare con noi, ritenevano che gli armeni erano persone che non avrebbero potuto arrecare danno alla popolazione civile. Siamo stati in grado di rompere quello stereotipo. E questo è quello che è successo”. Inoltre, lo scrittore armeno Markar Melkonian, nel suo libro My Brother’s Road: an American’s Fateful Journey to Armenia, dedicato al noto terrorista internazionale Monte Melkonian, suo fratello, che intervenne direttamente nell’eccidio di Khojaly, descrive come alcuni abitanti di Khojaly avevano praticamente raggiunto un luogo sicuro, dopo una fuga di quasi 10 km, quando i soldati armeni li catturarono e sfoderando coltelli iniziarono a pugnalarli. I territori dell’Azerbaigian sono occupati e gli azerbaigiani, vittime di pulizia etnica, sono rifugiati e profughi nella loro stessa terra. Questa è una prova evidente di chi sia nel giusto e chi no.
Temete che nuove violenze possano esplodere nell’area caucasica o pensate che stiamo attraversando un periodo di normalizzazione?
Penso che i fatti dell’Aprile 2016 abbiano dimostrato ancora una volta che il conflitto non è congelato e che le operazioni militari su larga scala possono riprendere in qualsiasi momento. In risposta alle provocazioni militari dell’Armenia e al fine di garantire la sicurezza dei suoi cittadini all’inizio dell’aprile 2016, l’esercito dell’Azerbaigian ha risposto alle provocazioni delle forze armate armene e le ha costrette a ritirarsi. Oggi l’Azerbaigian è il paese con l’esercito più forte e potente del Caucaso meridionale, ma Baku è alla ricerca di una soluzione pacifica di questo conflitto. L’Armenia deve prendere le sue decisioni, poiché questo paese, a causa della sua politica di occupazione, è in isolamento geopolitico e geoeconomico. E la colpa principale è dell’Armenia stessa.
Se dovesse citare l’episodio più orrendo subito dalla popolazione del Nagorno Karabakh, quale sarebbe?
Sicuramente il genocidio di Khojaly. Seicentotredici morti in una sola notte, tra cui: 63 bambini, 106 donne e 70 anziani; inoltre, 487 invalidi, 1275 prigionieri, 152 dispersi, tra cui 68 donne e 26 bambini. Sono state sterminate 8 intere famiglie, 25 bambini hanno perso entrambi genitori, sono state violentate e mutilate centinaia di persone, senza contare i danni psicologici subiti dai sopravvissuti. Cinquantasei civili furono uccisi con particolare brutalità e crudeltà. I corpi furono vilipesi. La cosa più grave è che i responsabili di tutte queste atrocità ancora oggi non solo rimangono impuniti, ma alcuni sono riconosciuti in Armenia come “eroi” della guerra del Karabakh e addirittura occupano alte cariche politiche.
Per finire, cosa le fa pensare che della tragedia del Nagorno Karabakh debbano essere accusati gli armeni?
Il punto non sta nel fatto di come io la pensi, o che cosa mi ha fatto pensare ciò. È una situazione in cui i fatti parlano da sé. È evidente che la vittima è lo Stato i cui territori sono sotto occupazione e i cui cittadini sono diventati profughi nelle proprie terre e che l’aggressore è chi ha violato il diritto internazionale e da più di due decenni ignora numerose risoluzioni degli organismi internazionali. Credo che tutto ciò sia sufficiente per comprendere la verità.