Pasolini, quarantadue anni dopo il rimpianto feroce per non averlo capito

Non c'è n'è mai stato un altro come lui, Corsaro del Novecento. Trasformato in un'icona sbiadita da un Paese di smemorati e collusi. Un testimone di carne di una Nazione che non l'ha meritato

Pasolini, quarantadue anni dopo il rimpianto feroce per non averlo capito
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2 Novembre 2017 - 11.47


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di Daniela Amenta

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Non è poi che Ostia sia cambiata così tanto, da allora. Giusto un po’ di stucco. Dopo due anni di commissariamento per mafia domenica si vota e c’è il serio rischio che a prendersi il Municipio siano i fascisti di CasaPound. Pier Paolo Pasolini, solo lui, avrebbe trovato le parole per raccontarla questa strana metafora, il decimo quartiere di Roma che Roma non è, le mani dei clan sul mare che a tratti è grigio come gli abiti dei notabili, i doppiopetti dell’Italia che lo detestava, quei “milioni di piccolo borghesi come milioni di porci che pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti”.
Due novembre 1975. Quarantadue anni anni dopo a Ostia si leggeranno i versi del poeta, parole al vento. Nel vento i suoni del sassofono di Nicola Alesini. Parole di cenere per Gramsci annichilito da una sinistra democrista, per la Nazione che è sprofondata senza affogare nel suo “bel mare”.
Cercare le tracce di Pier Paolo oggi è una pratica difficile. Bisogna partire dal Tevere, forse. Ripercorrere a piedi quel pezzo di città industriale che Pasolini tanto amava. La città a sud, d’acciaio e architetture elettriche, a caccia di modernità, con il Gazometro a fare ombra sui canneti come un Moloch, sul greto logoro del fiume. Lo stesso Gazometro che campeggia su una foto bellissima che lo ritrae, lui profetico e sguardo assente, seduto sulla montagna dei cocci a Testaccio. Superata la riva, dall’altra parte del Ponte dell’Industria, c’è il Biondo Tevere, trattoria romanesca. Pier Paolo ci andò con Pino Pelosi, detto “la rana”. Era il primo novembre del 1975, Pelosi mangiò, Pasolini restò a fargli compagnia al tavolo. Poi via nella notte, Ostia non è lontana, quando s’alza il ponentino arriva dritto un odore di salmastro, di mare raffermo, in questa parte di Roma. Poche ore dopo il massacro, la mattanza all’Idroscalo.
Senza giustizia nessuna pace, però. E quindi quarantadue anni dopo Pa’ è come l’ombra di Banco shakesperiano, un fantasma che ci tira le orecchie, a volte. Che si fatica a narrare. Lo ha detto, meglio di tutti gli altri, il regista David Grieco in un film che si intitola “La macchinazione”, osteggiato e vilipeso proprio come un’opera di Pasolini perché mostra, dimostra, denuncia. Troppo per un Paese smemorato come l’Italia che dopo aver cancellato il Corsaro del Novecento ora si ostina a commemorarlo come un santino, una immaginetta, un’icona. Che così è più semplice in fondo. Ridurlo ad un archetipo, una foto sbiadita. Strategie del linciaggio e della mistificazione.
In quarantadue anni forse un pezzo civile di questa Nazione “vivente ed europea” ha sperato di averne un altro di Pasolini, vederlo nascere tra Casarsa, Bologna e le periferie di Roma. Uno in grado di usare la penna, la macchina da presa e i colori nello stesso modo. Uno feroce e timido, il corpo magro, calciatore nel ruolo di attaccante (cos’altro sennò?), con quella voce che sembra una risacca, cronista furibondo, veggente per dolore, uomo di tv, di teatro, di musica, polemista e sezionatore di ogni luogo comune. In quarantadue anni forse l’avremmo meritato un altro Pasolini, scomodo e lungimirante, l’intellettuale ipermetrope, con tutte quelle contraddizioni che lo rendono testimone di carne, quindi eterno. Non l’abbiamo avuto. Nessuno così, come lui. E forse solo oggi l’assenza del poeta e quell’urlo disperato di Moravia ai funerali, sono la cifra esatta di quanto abbiamo perso, quanto ci manca la bussola sghemba che portava in tasca con le chiavi di un’Alfa Gt 2000.

Di cosa si parla quando si parla di Pasolini, oggi, 2017?

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Un processo archiviato, la morte atroce, la sessualità negata, la vendetta di un Paese ipocrita che per anni ha ridotto perfino il suo omicidio a un pasticciaccio brutto di marchettari. L’aveva previsto Pasolini. Pure questo aveva immaginato. E scritto. “La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non più essere compresi”.
Abbiamo molto da farci da perdonare. Non averlo capito, riconosciuto. Compreso, appunto. E per un contrappasso inevitabile non averne visto nascere, crescere un altro. Privati per sempre. Orfani per sempre in una tardiva veglia funebre che non ci assolve, non ci consola.
Quarantadue anni dopo ci resta la nostalgia come una cicatrice per il poeta eretico, vilipendio permanente, coscienza che morde. L’amore disperato per chi non abbiamo compreso.

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