di Davide Madeddu
Il cancello si chiude con un colpo sordo. La gabbia parte veloce verso il buio in un salto di quasi quattrocento metri. Viaggio nel cuore della terra, dove la gabbia non è altro che un ascensore da miniera e il vuoto è un pozzo alto quanto un palazzo di 130 piani. Un viaggio da brivido verso l’ignoto, che si ripete ogni giorno e non passa neppure quando si fa una scelta sofferta e drammatica: barricarsi in galleria per difendere quel lavoro che rischia di essere cancellato. Un brivido che si ripete anche quando Manlio, maestro elementare in prestito al sottosuolo, scrive e recita una poesia. Un brivido contaminante.
Franco Farci, minatore in pensione da quindici anni e protagonista delle più accese rivolte operaie che hanno caratterizzato l’Iglesiente dagli anni sessanta al novanta, lo racconta nel suo libro “Brividi di ricordi”, con prefazione del giornalista Marco Corrias. Con una scrittura pacata ma precisa ricostruisce e trasmette un mondo che, nella maggior parte dei casi, è stato raccontato da terze persone. “Perché di minatori che scrivono libri non se ne trovano poi tanti”. In lui non c’è l’ambizione di diventare scrittore, e neppure quella di essere considerato uno storico o un punto di riferimento, anche se di libri che raccontano la miniera, la vita degli uomini del sottosuolo ne ha scritto tre: Pozzo Zimmerman con Marco Corrias, Lavorare per vivere e non per morire e Brividi di ricordi. Parole semplici che raccontano spaccati di vita di chi ha la volontà e il desiderio di lasciare un segno giacché le miniere “sono ormai tutte chiuse e quel mondo, quell’umanità pian piano scompare”. «Se sei stato minatore non te lo togli mai di dosso – scrive Franco nelle pagine che anticipano la lettura-. E’ come la polvere sottile carica di silice che respiri e ti va nei polmoni e te la porti appresso tutta la vita». Dentro c’è un’intera esistenza. Quella del bimbo che nasce in una borgata mineraria e che a sua volta diventa minatore. Ma anche la storia di Manlio che da maestro elementare rinuncia alla cattedra nella scuola di Buggerru per andare a lavorare nelle miniere di Iglesias. Minatore per otto ore al giorno sotto terra e poeta e studioso nel tempo libero. L’amicizia con il collega Sergio con cui si condividono lotte e passioni, per il sindacato e la politica. Eppoi le lotte operaie, quelle degli anni sessanta ma anche la più dura. Quella del 1993 quando i minatori di San Giovanni si rinchiusero nella rampa della miniera e rimasero barricati per mesi.
Una lotta senza precedenti per salvare posti di lavoro ma anche un sistema produttivo e una cultura tecnica scientifica che d’un tratto rischiava di esse spazzata via e cancellata. Lavoratori e sindacati si batterono perché la chiusura delle miniere fosse graduale e nessuno rimanesse senza occupazione. Un’amara soluzione in una vertenza che «non chiedeva assistenza o prebende ma opportunità».
Un racconto che non vuole essere una tediosa celebrazione sulla falsariga del “come eravamo” ma che offre un’altra visione. Quella di chi ha fatto la sua parte in un periodo importante se non per l’Italia, per la sua città e i suoi concittadini. La testimonianza di chi ha vissuto e continua a vivere quel legame forte di amicizia e solidarietà che ha sempre unito chi lavorava sottoterra. E questo Franco Farci lo sa bene giacché non nasconde l’emozione quando racconta un mondo che continua a resistere nei racconti dei vecchi minatori e in quelli che Franco e pochi come lui hanno scritto. «Credo che parlare di ricordi sia una cosa utile – scrive – perché penso che la memoria sia un passaggio importante da trasmettere alle nuove generazioni».
Lui, Franco Farci minatore da Fluminimaggiore, ci prova.