di Enzo Verrengia
L’affare Weinstein si gonfia.Eppure per sgonfiarlo basta rileggersi o leggersi ex novo i due volumi di Hollywood Babilonia, che Kenneth Anger licenziò rispettivamente nel 1959 e nel 1969, ai due capi di un decennio spesso indorato dall’agettivo “favoloso”. Peraltro, l’autore, che la mecca del cinema conosceva di prima mano, andava molto più indietro degli anni ’60, fino ai primordi di un’industria nata per far sognare le masse e segnata nel suo interno da pratiche degradanti, oscene e non di rado letali. Si veda la sfilta di omicidi, suicidi e morti non del tutto accidentali di cui è costellata la storia della settima arte, come la definì il critico Ricciotto Canudo nel 1921.
È che i media sovrabbondano di notizie, mostri e portenti in maniera tale da dover ricorrere sempre più spesso al repêchage, spacciato per novità, quale scoperta dell’acqua calda. Sfugge in questa canea del “dalli all’approfittatore” la frequente pervicacia di chi, pur di sfondare, non lesina la propria persona. Fino al paradosso: offrirsi senza attendere il ricatto dal produttore, dal regista o nientemeno che dallo sceneggiatore, considerato anche lui determinante nella formazione del casting. Questa pratica riguarda non solo le donne. Si sa che a passare per letti importanti furono anche divi componenti l’Olimpo della maschia bellezza, quali Errol Flynn, Tyrone Power e Richard Taylor. Non ne hanno fatto mistero, in tempi più recenti, Sean Connery e Alain Delon.
Il tutto meravigliosamente, spietatamente e ferocemente incarnato dalla Cagna Maledetta di Boris, la serie televisiva e il film derivatone. La bravissima Carolina Crescentini interpreta Corinna Negri, starlette de noantri, animata, o meglio spiritata da un frenesia accanita quanto vacua nel voler primeggiare con ogni mezzo nell’ambiente dello spettacolo. Il picco lo raggiunge nel suo delirio sull’ipotesi di fare la parte di Madre Teresa di Calcutta, nel suo stupore nevrotico e genuinamente idiota dinanzi scoperta che la santa suora è morta.
Sempre in Boris, le tiene il fianco l’altrettanto insostituibile Karen Proia, ossia “le Cosce”. Lei è molto più verace della Cagna Maledetta, non nasconde dietro grandi pretese artistiche la sua completa disponibilità. Afferma forte e chiaro che per la televisione non la dà, per il cinema sì.
Le due caratterizzazioni, più di tutto, denunciano il patetico di una cinematografia, quella italiana dagli anni ’80 in poi, precipitata nello squallore del minimalismo, dell’assoluta mancanza di slancio, di epica, di grandiosità, grazie all’avento di certi “giovani autori” e del varo di leggi che via via ne hanno mortificato le potenzialità. Della serie: ma vale la pena di sbattersi per figurare in film che propongono interni da tuguri di studenti fuori sede, scorci di una Roma sfregiata da graffiti, da pozze di orina disseccata e bivacchi?
Tornando invece agli anni di Hollywood sul Tevere, va ritrovato su qualche bancarella dell’usato o su eBay il libro omonimo di Hank Kaufman e Gene Lerner, pubblicato da Sperling & Kupfer nell’ormai remoto 1982. In quella sede, la coppia di conoscitori dei retroscena più piccanti di Cinecittà riferiscono di circostanze accertate che vedevano perfettamente capovolto ciò di cui oggi viene accusato Weinstein. Attrici non solo italiane all’assalto di cinematografari e affini pur di apparire in techincolor… ma anche in bianco e nero.
Certo, era il dopoguerra, e più che mai la disperazione di una quotidianità fatta ancora di macerie, di nutrimento risicato e di determinazione a conquistare una vita migliore trovavano nel grande schermo e nello spettacolo la naturale aspirazione collettiva di uomini e donne. Si riveda anche La signora senza camelie, di Michelangelo Antonioni, ritagliato quasi a misura autobiografica sulla protagonista, Lucia Bosè. O più tardi Bellissima, di Luchino Visconti, dove una Anna Magnani strepitosa ha il ruolo di una madre che proietta la sua bramosia di successo sulla figlia minorenne.
In quel periodo, comunque, si ritrovava un’indiscutibile giustificazionismo sociale rapidamente dissoltosi nelle metamorfosi dell’Italia fra gli anni ’70 e ’80. Senza dimenticare che nella Hollywood vera, quella sul Pacifico, non erano passate tragedie belliche, anzi laggiù la guerra in Europa aveva ingigantito il business.
A precedere tutto questo, la grandiosa e per certi versi regale autoproposizione di Paola Borbone nell’America Meridionale, volta a conquistare i favori di tiranni che poi avrebbero finanziato le rappresentazioni di Pirandello. Risultato, oggi in molti Paesi di quella parti sorgono teatri intitolati all’autore siciliano.
Ma il binomio sesso e potere travalica il recinti dello show business e attraversa la Storia fino alla civiltà dell’immagine e dell’invadenza mediatica, che rende pubblico il privato di chiunque, tanto più per la classe dirigente. Dominique Strauss-Khan, fu imputato di stupro dalla cameriera trentaduenne Nafitassou Diallo e scagionato dopo una gogna dall’esposizione planetaria. La verità giudiziaria consisteva nel mancato pagamento di una prestazione erotica alla donna da parte dell’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale. Inoltre, le ambiguità dell’accusatrice rinfocolarono le ipotesi di complotto che l’informazione francese ventilò dall’inizio della vicenda.
Fu lo stesso per Bill Clinton, da molti definito uno dei migliori presidenti succedutisi alla Casa Bianca. Tutti sapevano della sua predilezione per l’altro sesso. Si vociferava di una sua relazione con Gennifer Gershom, la splendida attrice di Showgirls, che smentì. Quando, però, la stagista Linda Tipp rivelò dei rapporti fra Clinton e la sua ex collega Monica Lewinsky, fu scandalo. The Economist, il settimanale tanto citato per autorevolezza, appose in copertina il presidente degli Stati Uniti quando a Washington si sviluppava l’inchiesta del procuratore Kenneth Winston Starr, con un titolo implacabile che era un verdetto: «Just Go!», vattene e basta.
Certo, Bill aveva mentito dinanzi al Gran Giurì. Il rapporto orale c’era stato e le macchie sul vestito lo dimostravano a prova di DNA. Pure, era sospetto l’accanirsi contro un presidente che portava l’America fuori da molti tunnel. Innanzi tutto quello del Vietnam, con il famoso viaggio a Saigon. Nonché dalla non-vittoria della prima Guerra del Golfo, nella quale Bush padre aveva lasciato il lavoro a metà. Clinton istituì la No Flight Zone, lo spazio aereo interdetto ai voli dei caccia di Saddam Hussein. Per non parlare dell’intervento nel Kossovo e dell’intermediazione fra israeliani e palestinesi. Dunque, lo scandalo Lewinsky colpiva un politico non proprio allineato. Come lo Strauss-Khan che si prodigava per la Grecia ed altri Paesi in difficoltà.
Come adesso per Weinstein, si rimarca il fatto che negli Stati Uniti, la tolleranza zero viene esercitata soprattutto nel campo della moralità sessuale. Non potrebbe andare in altro modo per la società fondata dai puritani. Sempre d’attualità lo scanzonato giudizio del presidente Johnson: «La destra si mette nei guai perché ruba e la sinistra perché scopa». Ne sa qualcosa il deputato Gary Condit, implicato con l’ennesima stagista, Chandra Levy. L’uomo non ne seppe cogliere la lezione, perché cercava altre stagiste con inserzioni su Internet. Un altro Gary, Hart, nella sua corsa alla presidenza venne clamorosamente bloccato dalle accuse di Donna Rice ed inchiodato da una foto con lei in crociera alle Bahamas.
A Washington un adagio recita: «Non esiste cena che sia gratis». Il conto per ragazze in cerca di grandi occasioni, può comprendere la sottomissione alle voglie erotiche di una classe dirigente anch’essa fresca di vantaggi del potere. Il potere istituzionale è visto come un mezzo per affrancarsi dal puritanesimo ossessivo, quello che poi scatena i mezzi d’informazione se si è colti sul fatto. I luoghi celebri della cronaca rosa diventano mete di pellegrinaggi. La Scandal Tours of Washington offre dalla primavera all’autunno escursioni legate alla relazione fra il presidente Clinton e Monica Lewinsky, agli sfondi per l’idillio di Gary Hart e all’albergo Watergate, che, pur non riservando alcuna allusione ad episodi sessuali, è assurto a matrice linguistica degli scandali, col suffisso gate.
Per il caso Condit, fu inevitabilmente evocata Chappaquiddick, Massachusetts. La località vicino Edgartown, sull’isola alla moda di Martha’s Vineyard, in cui morì per un incidente la giovane segretaria Mary Jo Kopechne, la notte del 18 luglio 1969. Al volante dell’auto, Ted Kennedy, che uscì nuotando dal veicolo abbandonando la collaboratrice nelle acque.
Sugli scandali sessuali della dinastia americana per eccellenza si riempiono biblioteche. John Kennedy nel 1942, a guerra in corso e da ufficiale dei servizi segreti della Marina, ebbe un flirt con l’ex miss Danimarca Inga Arvad Freios, amante di Axel Wenner-Gren, svedese sorvegliato dall’intelligence americana come spia nazista. Il controverso presidente si divise con il gangster Sam Giancana i favori della spogliarellista Judith Campbell, e godette delle grazie di Christine Keeler, la pin-up che passava dal letto del ministro britannico della guerra John Profumo a quello dell’addetto navale sovietico Evgenij Ivanov.
Quanto a Robert Kennedy, non venne mai chiarita la sua implicazione nella morte di Marilyn Monroe. Per lei si confezionò l’ultimo ruolo, quello della diva al tramonto, dopata e suicida, mentre la sua potrebbe essere stata un’eliminazione con cui evitare imbarazzi nella sfera presidenziale.
Lo tenne in gran conto l’uomo che manipolava i segreti più sporchi d’America. John Edgar Hoover, inossidabile capo dell’FBI per quasi mezzo secolo, aveva schedato l’intera nazione. E sfruttando informazioni al calore bianco ricattava chiunque, non esclusi i presidenti, per mantenere ed accrescere il proprio potere. Trasformò l’FBI in un impero di individui totalmente asserviti. A partire da Clyde Tolson, più di un amico, più di un assistente. Lui e Hoover erano amanti, perché il Direttore praticava l’omosessualità. Ironia della sorte per uno che rimestava nei segreti altrui, il suo finì nelle mani di mafiosi come Frank Costello e Meyer Lansky, che quasi certamente lo ricattarono. Sta di fatto che l’impegno dell’FBI contro la criminalità organizzata fu ben effimero sotto Hoover, ad onta di una mitologia nutrita da cinema, radio, fumetti e TV.
Poco prima di morire, Hoover teneva ancora sotto controllo perfino l’onnipotente Richard Nixon, resosi “colpevole” di una relazione con una donna di Hong Kong, Marianna Liu. Grazie inoltre alle sue amicizie con i petrolieri, il capo dell’FBI poté proficuamente investire in borsa, accumulando un ingente patrimonio per sé e l’inseparabile Clyde Tolson.
Hoover aveva impegnato uomini e risorse non a lottare contro la criminalità e a tutelare la sicurezza nazionale, ma a frugare nella vita privata degli altri per fini personali.
Da Hollywood a Washington, passando per Cinecittà, il sesso come instrumentum regni è il filo rosso di un’umanità da millenni in gara con se stessa per eccellere in inadeguatezza.