Questa è una delle esercitazioni svolte dalle studentesse e dagli studenti che stanno frequentando il laboratorio di giornalismo, tenuto dal Professore Maurizio Boldrini. Sono da considerarsi, per l’appunto, come esercitazioni e non come veri articoli.
di Lorenzo Mori
Mentre sto scrivendo, Gaza e Israele si trovano in una fase di relativa calma, anche se qui nei campi profughi al nord si continua a respirare un clima cupo e rassegnato, dopo un periodo di intensi scontri. Entrambe le parti hanno subito perdite significative e la necessità di una tregua è diventata pressante, soprattutto dal canto palestinese.
Oggi, percorrendo la strada che porta verso il nord di Gaza, ho potuto vedere camion con decine e decine di persone ammassate nei rimorchi. Davvero una scena surreale che mi dà l’immediata consapevolezza di quello che ogni giorno anche i civili di Gaza sono costretti a subire.
Pochi gli ospedali rimasti in piedi e quello di Gaza City, dove ero ieri, si è organizzato con brandine anche all’aperto nel cortile, brandine che in poche ore ho visto riempirsi di feriti. Tutto è reso più difficile perché il contesto di pericolo continuo impone limiti alle organizzazioni umanitarie che prestano aiuto all’ospedale.
Tutta la Striscia di Gaza, già prima della guerra, aveva una condizione socioeconomica disastrosa; si parla di più del 45% della popolazione senza occupazione e del 67% delle famiglie a rischio insicurezza alimentare. C’è da pensare che gli scambi di ostaggi, da parte di Hamas, siano stati proposti come un segnale di cooperazione che possa permettere di aprire la strada a negoziati più ampi. In Israele pare che le voci dei falchi abbiano la meglio e, nonostante le pressioni Usa, è facile dedurre che la guerra durerà ancora a lungo.
Gli scambi coinvolgono solitamente prigionieri politici o militari detenuti dalle due parti e appaiono più come ruvidi strumenti di negoziazione che azioni umanitarie. Sono preceduti da trattative complesse con mediazione di terze parti, come organizzazioni internazionali o paesi arabi vicini che hanno relazioni con Israele. Nei giorni del cessate il fuoco, al momento, sono stati riportati in terra israeliana 69 persone liberate in piccoli gruppi, a cui vanno aggiunti i numeri di oggi, giovedì 30 novembre.
Nell’ultimo gruppo rilasciato da Hamas ci sono 5 donne e un ragazzo: Aisha Ziyadne, 17 anni, e suo fratello Bilal Ziyadne (18), i cui genitori sono ancora in ostaggio; Shani Goren (29), operatrice educativa in un kibbutz; Sapir Cohen (29), il cui compagno Sasha Trupanov è ancora prigioniero; Ilana Gritzewsky (30), mentre il suo compagno Matan Tsngauker è ancora in ostaggio; Nili Margalit (40), infermiera pediatrica.
Per quanto riguarda l’operazione di scambio inversa, sono circa 150 prigionieri palestinesi liberati, ma nonostante la proroga di un giorno di tregua, la situazione sembra ancora molto instabile e qualsiasi mossa potrebbe far riaccendere un conflitto, che sembra tutt’altro che al tramonto. La questione della sicurezza dei civili palestinesi dovrebbe essere di primaria importanza anche se fino ad ora la strategia israeliana non pare tenerne conto, imbarazzando gli Usa che provano a dettare un approccio diverso nel centro sud di Gaza che prevede minori spostamenti in massa e più assistenza per gli sfollati.
Il governo Netanyahu non pare ascoltare questi consigli e questo fa intendere che, nonostante la tregua per gli scambi di ostaggi tra Gaza e Israele, probabilmente la guerra ripartirà. Intanto la popolazione di Gaza è allo stremo, si fatica a trovare del cibo e i confini sono chiusi.
Nella disperazione dei volti degli sfollati, costretti ad abbandonare le loro case, si legge un presagio di un futuro ancora pieno di dolore che nemmeno la fede riesce a lenire. La speranza di una soluzione possibile e sostenibile umanamente si infrange, per ora, nei corpi delle centinaia di bambini avvolti in sacchi bianchi, tra le macerie degli ospedali.