Una “Hudna” per il popolo palestinese

Continuano gli attacchi del governo israeliano. Colpita un'altra struttura ospedaliera nel nord della Striscia di Gaza.

Una “Hudna” per il popolo palestinese
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23 Dicembre 2023 - 17.21


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Questa è una delle esercitazioni svolte dalle studentesse e dagli studenti che stanno frequentando il laboratorio di giornalismo, tenuto dal Professore Maurizio Boldrini. Sono da considerarsi, per l’appunto, come esercitazioni e non come veri articoli.

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di Filippo Calcagno

Un altro attacco nel nord della Striscia di Gaza, l’esercito israeliano ha colpito l’ospedale indonesiano nel campo profughi di Jabalia e ha causato la morte di altre dieci persone. Qui, molti hanno dovuto abbandonare le loro case per via dei bombardamenti. Non resta molto da fare, nel panico dei suoni assordanti. “Mi sono spaventato molto e non ho fatto in tempo a prendere niente. Ho afferrato solo qualche indumento, i documenti e sono scappato via dal sud”, racconta Moshe. Prima che il governo israeliano attaccasse con colpi di artiglieria la struttura ospedaliera nella città di Beit Lahia, la figlia di Moshe dava alla luce prematuramente una bambina e, sfollati su un materasso fornito da un’altra famiglia anch’essa sfollata, si prendevano cura della neonata.

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La situazione per le strade è critica: mancando i servizi del municipio, ovunque vi è immondizia e detriti di case colpite dall’aviazione israeliana. Al loro interno c’è chi ancora scava con le mani tra le macerie, cercando di estrarre i corpi dei sopravvissuti. Ma gli sforzi per evacuare i civili in pericolo sono spesso vani, e il terrore non smette di incombere un momento, dice Yael, poiché “si respira la paura di nuovi bombardamenti israeliani e nessun posto può dirsi sicuro”.

Tra gli sfollati, chi può partirebbe subito, ma c’è anche chi non ha intenzione di abbandonare il proprio luogo per nessuna ragione: così Maya Derrabi, che racconta di non volersi trasferire malgrado la sua casa non esista più e il suo quartiere sia in rovina: “Israele non cessa la sua offensiva, con il pretesto di prendere di mira le fonti di Hamas, e vengono a mancare anche cibo, acqua potabile e medicine”. La incontro di fronte la facciata dell’edificio nel quale risiedeva: completamente distrutta, col soggiorno fatto a pezzi e i resti di una bicicletta gialla da bambino sul pavimento. “Quanti civili dovranno morire prima che finisca quest’inferno?”, si chiede Maya, che malgrado tutto si ritiene fortunata poiché ancora in vita.

Nello spostarmi tra le rovine, trovo due bambini a vagabondare, uno dei quali quasi irriconoscibile dal volto e con la pelle danneggiata. Seguono nuovi sfollati, in cammino a piedi, in un silenzio funebre e con volti inespressivi, dietro fumo, aria irrespirabile e palazzi danneggiati. “Ovunque si percepisce il rumore delle bombe e l’odore della morte”, racconta Yosef Odeh del campo profughi di Jabalia, “quell’odore è ovunque, non ti lascia. C’è anche la paura, ogni giorno, di vedere la propria famiglia nella lista dei morti del giorno”.

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Le persone sono sopraffatte, dalla morte e dalle persone ancora vive che i soccorritori riescono ancora sentire urlare sotto le macerie, tentando di salvarle in tempo. Tra le parole urlate e quelle piante, “hudna” è quella che sento più spesso, nel nord di Gaza sempre ricorrente; significa cessate il fuoco, significa dare tregua agli sfollati esausti da settimane di bombardamenti.

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