“Sono Letizia, e basta”. Risponde così Letizia Battaglia a Roberto Alajmo, amico scrittore e giornalista, in una intervista recente che lo stesso Roberto ci ripropone in queste ore nelle quali sorprende la vastità del ricordo della fotografa palermitana tra i siciliani. Soprattutto tra le siciliane, che in Letizia hanno sempre visto e continuano a vedere una esperienza di forza e coraggio.
Sono state scritte e leggo tante e tante cose su Letizia Battaglia, di chi l’ha conosciuta da vicino, di chi l’ha incrociata nel lavoro o nella vita. Tante, da mettere in difficoltà nello scrivere, anche tu.
Cos’altro dire di Letizia? Ci pensa Letizia. Nell’intervista che rivedo, infatti, è lei a dire:”Mi è andata bene nella vita, ho fatto e sono stata tante cose…”. Ecco, tante persone in una. Letizia “conteneva moltitudini”, e quando questo accade nel bagaglio entrano anche le contraddizioni delle moltitudini.
Chissà cosa ha provato Letizia, alla fine di una vita lunga e ricca, ad attraversare la soglia che dalla vita porta oltre, lei che la morte l’aveva fotografata cento e cento volte. Non solo le vite spezzate dalla mafia, e per la mafia, ma anche la morte lenta, il decadimento di una società, di una città, Palermo, che lei amava con una passione totale. Accade che quando si ama con passione violenta, totale, si possa respingere anche l’oggetto dell’amore, ci si allontani, si fugga. Come fece Letizia, un paio di volte. Sembravano addii. E’ così, poi manca l’aria, la luce, quella luce che ha fatto il bianco e nero delle sue foto. Diceva Letizia che fotografare a Palermo era diverso, ripeteva che fotografare a Palermo era un’altra cosa, non riusciva altrove. Per la luce, ma anche per l’umanità e per quelle contraddizioni che sono insite alle “moltitudini” che la stessa Letizia conteneva. “Palermo, affascinante, mi risucchia”, amava dire, Palermo miseria, violenza ma anche bellezza. Che Letizia scovava entrando nei cortili, facendosi strada nei catoi poveri, nei pianoterra affollati di bambini. Palermo per Letizia Battaglia è stata il set del suo impegno, della sequenza fotografica personale, un set di bellezza.
“Per me la fotografia è stato un lusso – ripeteva – un lusso che ho potuto permettermi”.
Di lei restano le pagine più drammatiche della città, ma anche – sono andate a sfogliarle ora – gli scatti su una Palermo (forse) felicissima fatta di nobili, di feste, di banchetti come in una grottesca riedizione del Gattopardo. Anche questa Palermo si portava addosso la sua morte.
I primi incontri con Letizia risalgono alla metà degli anni Ottanta. Giovane e praticante, avevo il giornale su viale della Libertà, lo stesso sul quale un grigio 6 gennaio Letizia avrebbe fotografato Piersanti Mattarella che moriva. Probabilmente per mano di killer non mafiosi. pargoli del cerchio eversivo che sempre ha volato, funereo, sull’Italia. Ma killer da Cosa nostra, arruolati, nel nome di un comune progetto criminale e politico.
A pochi passi da quell’angolo di via Libertà dove c’era la mia redazione, con maestri che venivano da L’Ora, si arrivava al Borgo Vecchio, ombelico di quella città nei giorni scorsi rivisitato da Domenico Iannacone per il suo “Che ci faccio qui” televisivo. Noi e lei spesso ci si trovava tutte le sere in una enoteca che stava a metà strada tra il nostro giornale e il suo laboratorio, che era anche scuola fotografica. Non era alla moda allora quell’enoteca, era una sorta di stazione di posta dalla quale si usciva in fretta per la notizia di un morto ammazzato. E Letizia, dentro le sue gonne ampie era la prima a partire e ad arrivare. Correva dentro le sue gonne ampie, perché che fosse donna lo ha sempre sventolato.