L’annosa contesa sui Marmi del Partenone al British Museum reclamati dalla Grecia con la Brexit ha preso una strada non prevista, anche se può rivelarsi a sfondo cieco. L’ultima bozza dell’intesa tra Ue e Londra secondo i media avrebbe una clausola: « le Parti, coerentemente con le norme dell’Unione, affrontano le questioni relative al ritorno o alla restituzione di oggetti culturali rimossi illegalmente nei propri Paesi di origine». Inevitabilmente la questione investirebbe quei marmi.
I vertici Ue lo avrebbero detto nei colloqui a Bruxelles in vista dei negoziati di marzo su richiesta – scrive la Reuters – di Grecia, Spagna, Cipro e Italia. Ma Londra risponde di no.
La richiesta riguarda, seppur non citati esplicitamente, i “marmi di Elgin”: si chiamano così dal nome del conte di Elgint Thomas Bruce che dal 1801 al 1812 rimosse le sculture e i fregi dal tempio ateniese dedicato alla dea Atena, datate V secolo avanti Cristo. Il nobile le portò nel suo Paese, l’Inghilterra, in veste ufficiale: il conte era «Ambasciatore Straordinario e Ministro Plenipotenziario di Sua Maestà Britannica alla Sublime Porta di Selim III, sultano dell’Impero Ottomano» e trafugò altri reperti in altri siti.
Per il governo britannico una delle attrazioni principali del British resta dov’è perché, sostiene, la sua presenza è legale in quanto frutto di un accordo: l’impero ottomano che dominava la Grecia aveva autorizzato a pagamento il trasloco. Il conte ebbe un permesso ufficiale della Turchia affinché potesse portare via alcune «pietre con sculture» dal tempio sorge sull’acropoli di Atene. Ma la Grecia ha sempre contestato questo atto fondandosi sul fatto che l’impero ottomano aveva occupato il paese di Aristotele e Platone e pertanto non era proprietario delle sue opere.