Un barcone squarciato e Bella ciao. Per quanto desiderino mettere tutto a tacere i fautori del respingere in Libia e lasciar affogare i migranti nel Mediterrano, per quanto ci si creda assolti siamo tutti coinvolti, tanto per parafrasare Fabrizio De André. E che siamo tutti coinvolti in una tragedia dai numeri spropositati e che nemmeno sappiamo ce lo ricorda l’imbarcazione naufragata nel Mediterraneo e trasportata nella notte tra lunedì 6 e martedì 7 maggio alla Biennale d’arte di Venezia che l’ha montata in un luogo dove tutti i visitatori passano e passeranno.
Lo scafo squarciato
La mostra si è aperta alla stampa, apre le porte al pubblico sabato 11 maggio per concludersi il 24 novembre, e all’Arsenale davanti alla gru Armstrong, invero malconcia, carica di ruggine e bisognosa di restauri, il 53enne svizzero Christoph Büchel ha fatto portare e montare in terraferma uno di quei barconi con tanto di falla e sbarre infilate nelle falle della chiglia come travi in un corpo ferito. La sua presenza imponente e squarciata rende inevitabile pensare agli affogati e alla politica spietata dell’attuale governo italiano a trazione leghista che usa il pugno feroce con chi ha bisogno e viene da un’altra terra, da un altro continente. Un relitto. Su quella nave affondata morirono 800 persone circa, nel 2015, nel canale di Sicilia. Il titolo dato dall’artista è «Barca Nostra».
Com’è finito in laguna questo scafo memore di speranze e drammi? Lo ha portato l’artista, Büchel, uno degli autori invitati alla mostra numero 58 della Biennale «May you Live in Interesting Times» curata da Ralph Rugoff su incarico dell’ente presieduto da Paolo Baratta, che non si è tirato indietro. L’imbarcazione è lacerante perché ricorda al mondo non solo la tragedia in corso ma quanto non facciamo per fermarla. Büchel ha chiesto il relitto per un anno in comodato d’uso al Comune di Augusta che lo detiene dietro affidamento del ministero della Difesa.
Il barcone non vuole essere “bello”
Qualcuno obietterà che un barcone in una mostra è fuori luogo perché non è arte. Obiezione a cui è giusto rispondere e sarebbe ingiusto fare spallucce. La risposta l’ha data Duchamp a inizio ‘900 quando dimostrò che anche un orinatoio collocato in un luogo d’arte diventa un’opera d’arte. In quel caso l’artista-intellettuale inseriva dosi industriali di ironia, stavolta le tragedie del mare sono troppo urgenti per buttarla nell’ironia. L’unica possibile e fondata obiezione è se un intervento simile rende estetico e, tra virgolette, «bello», il barcone. No, non è «bello» nel senso della bellezza, non ha nulla di bello né vuole esserlo.
“Bella Ciao” di Liliana Moro acquista valore politico
Non bastasse a rimandarci alle urgenze umane e politiche e al bisogno di umanità quando i diritti degli ultimi e dei penultimi vengono stracciati, s’incunea nel dibattito politico anche il Padiglione Italia diretto da Milovan Farronato su incarico della Direzione generale Arte e Architettura contemporanee del Ministero dei Beni e Attività Culturali affidato al 5 Stelle Alberto Bonisoli.
La convincente Liliana Moro diffonde infatti da un altoparlante Bella Ciao: qualunque siano i propositi dell’artista l’opzione acquista un peso politico considerando il can-can anti 25aprile messo su da tanti esponenti leghisti e dal loro capo multi-divise più che multi-tasking. Per evitare malintesi: semplicemente far ascoltare la canzone dei partigiani, ancorché davanti a tavolini gialli sotto qualche ombrellone come fa l’artista, rimanda a chi lottato, spesso morendo, per la democrazia contro il fascismo di nuovo alle porte del potere.
Nel piccolo pieghevole che fa da guida al Padiglione leggiamo: «La canzone Bella Ciao, simbolo della lotta partigiana contro il nazi-fascismo, è diventato negli anni il canto di molte rivoluzioni sparse per il mondo». Liliana Moro la diffonde in quindici lingue: la scleta assume pertanto una carica politica più forte quando la Liberazione viene apertamente minacciata da chi in piazza a Milano riesce a esporre uno striscione per Mussolini nonostante esista il reato di apologia del fascismo.
Il labirinto del curatore è in effetti un labirinto
Per il Padiglione Italia Milovan Farronato ha evocato alla stampa in modo esplicito l’immagine del labirinto. In effetti il curatore ha montato un percorso a labirinto con pannelli che richiamano l’architettura metafisica. Tre gli artisti: Liliana Moro appunto, a nostro parere la più efficace e poetica; Chiara Fumai, artista scomparsa da pochi anni, nel 2017, che Farronato conosceva bene e si è accollato la responsabilità di disporre i suoi lavori; Enrico David, autore di installazioni e di sculture che rimandano a personaggi del mondo fantastico e dagli innesti anche mostruosi.
Del trio convince più di tutti Liliana Moro, che ha opere anche inquietanti come i pattini in ferro legati a catene o il levriero in ceramica su una colonna che punta a una foglia; i lavori postumi di Chiara Fumai possono dare stimoli e suggestioni poetiche.
Ci risulta meno convincente Enrico David.
Quanto all’impianto intellettuale del Padiglione: Farronato vuole deliberatamente spiazzare i visitatori per evitare la banalità, per indurci a esercitare il pensiero critico, per disorientare, si comprende che ha un sistema di pensiero suo e fondato su conoscenza e originalità, non sulla volontà di stupire. Ciononostante un dettaglio rivela un impiccio: collocare le didascalie sul pavimento dove lo sguardo non va può rendere la visita faticosa soprattutto quando il Padiglione sarà affollato.