Tra gli archeologi italiani più in vista è battaglia. Un fronte si è schierato con un appello pubblico e chiede all’attuale ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli di ritornare alle soprintendenze archeologiche separate dal resto com’erano prima del 2016, ovvero prima della riforma dell’ex ministro Dario Franceschini che le ha trasformate in soprintendenze “Archeologia, Belle Arti e Paesaggio”. Invocano un ritorno perché, affermano, la tutela, cioè la salvaguardia, del patrimonio archeologico non viene più coperta in modo sufficiente. Gli archeologi chiedono quindi che musei e parchi archeologici e soprintendenze archeologiche lavorino sotto un unico tetto dell’archeologia e non siano mescolate al resto.
Dopo questa posizione pubblica, vi si contrappone un altro fronte. Qui gli archeologi domandano al ministro di rafforzare le “soprintendenze uniche”, di non tornare alla “frammentazione di competenze” nella tutela e invocano di non finire al classico “muro contro muro”, per quanto sia un auspicio probabilmente difficile da realizzarsi. A due anni da quella riforma emerge però che troppi problemi sono tuttora irrisolti. La riforma Franceschini sconta pertanto molti errori sui tempi e sui modi in cui è stata imposta e non condivisa e ha, spesso, reso difficile il lavoro dei tecnici. Tuttavia è difficile negare che abbia dato uno scossone e questo invece è stato positivo.
Fronte 1: da La Regina a Sgarbi
Intanto diciamo chi ha scritto il primo appello “pre – riforma” e chi il secondo. In entrambi i casi le figure autorevoli non mancano. Tra i firmatari del primo fronte figurano Adriano La Regina (già soprintendente a Roma), Pietro Giovanni Guzzo (già a Pompei), Stefano De Caro, che ha guidato la sezione delle Antichità al ministero, l’ex soprintendente dell’Etruria e di Roma Anna Maria Moretti, Jeannette Papadopoulos, Luigi Malnati, già direttore generale alle Antichità, già soprintendente; ha aderito, tra molti altri, Vittorio Sgarbi. Nell’elenco quasi non compaiono dipendenti del dicastero perché, dal 2016, i funzionari hanno molti più limiti sul pronunciarsi pubblicamente su quanto riguarda il ministero.
Fronte 2: da Carandini a Volpe
Il fronte pro soprintendenze miste vede in prima fila l’archeologo, docente a Foggia ed ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali (lo chiamò Franceschini) Giuliano Volpe. Altri firmatari sono Andrea Carandini, presidente del Fai – Fondo Ambiente Italiano e anche lui ex presidente del Consiglio superiore, Daniele Manacorda, docente a Roma Tre, figure non di archeologi già ai vertici del ministero oppure storici dell’arte quali Pietro Petraroia (già in Italia Nostra) e Antonio Pinelli.
Le ragioni del fronte 1: perché tornare a com’era prima
La Regina, Guzzo e gli altri sostengono che la creazione di soprintendenze miste ha da un lato sparpagliato il personale degli uffici archeologici in più sedi o incarichi, ha reso il lavoro di tutela quasi impraticabile, ha provocato una drastica riduzione degli scavi preventivi (l’archeologia preventiva si fa nel caso di lavori pubblici come metropolitane o strade per vedere se ci sono reperti a cantieri aperti e non quando è troppo tardi), chiedono che il ministero abbia una direzione specifica sull’archeologia perché il settore ha troppe diversità rispetto al resto. Il giudizio negativo è netto e non lascia margini: “la riforma organizzativa attuata da Franceschini sul Ministero per i Beni Culturali senza reticenze e dubbi fallita e sta producendo risultati devastanti”. Se il ministro non interviene, la situazione, avvertono gli archeologi, “degenera”.
Le ragioni del fronte 2: perché mantenere le soprintendenze miste
Volpe e colleghi temono “il ritorno alla frammentazione di competenze nel campo della tutela”. Si riferiscono a quando, per un permesso, un privato o un ente pubblico ad esempio su un cantiere o su dei restauri dovevano chiedere il sì in contemporanea alla soprintendenza archeologica se c’erano presenze dell’antichità, a quella architettonica per l’architettura, a quella dei beni storico-artistici se l’edificio aveva dipinti.
Per i firmatari l’unificazione ha permesso considerare realtà in apparenza diverse come capitoli di una storia unica e indivisibile frutto di stratificazioni (pensate a città come Roma), per cui non si possono separare le memorie dal sottosuolo dagli edifici soprastanti, perché la storia è unica e stratificata.
Nel documento Manacorda, Carandini, Volpe e gli altri riconoscono “i cronici deficit di mezzi, risorse e personale (solo in parte colmati con la recente assunzione di oltre mille funzionari tecnico-scientifici)”, ma parlano di tecnici non abituati “al lavoro comune interdisciplinare” e aggiungono che le “oggettive questioni logistiche (gli archivi, i magazzini dei reperti archeologici, i laboratori)” vengono “aggravate” dai soprintendenti che dovrebbero “ripensare profondamente il proprio ruolo”. In pratica, parlano di un arroccamento che, pur se in buona fede, non aiuta affatto a tutelare le nostre memorie dell’antico.
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