Il crollo nella chiesa di San Giuseppe dei Falegnami a Roma, a pochi giorni da quello del ponte a Genova, rivelano un Paese che non sa conservare il suo passato e non guarda al futuro. Possiamo sintetizzare così la valutazione a caldo, a globalist.it, di due figure attente allo stato culturale dell’Italia. Luca Zevi, architetto, urbanista, ha esercitato il suo lavoro anche nei centri storici, direttore del Padiglione Italia della Biennale di Venezia nel 2012; Adriano La Regina, archeologo, è stato storico soprintendente alle antichità nella capitale dal 1976 al 2004 e non ha mai appeso al chiodo la professione. E non ci vuole molto a immaginare il significato emblematico della rovina odierna (per fortuna non c’era nessuno per cui non piangiamo morti) a pochi giorni dalla tragedia del ponte di Genova.
La notizia: crolla il tetto della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami
Luca Zevi: una società che non guarda al futuro non salva il passato
“Si sta rivelando come una società che non sa guardare al futuro non sa salvaguardare il passato. Oggi non c’è una progettualità riguardo alle nuove opere e non c’è neanche una capacità di salvaguardare quanto consegnato dal passato. Per questo si verificano questi episodi”, risponde l’architetto Luca Zevi mentre sul web arrivano le notizie sul crollo nella chiesa nel centro di Roma. “Non è un problema dell’attuale governo, è un fenomeno generale” avverte l’urbanista che nella sua analisi allaccia la tragedia di Genova al cedimento di un’antica chiesa capitolina. “Realizzare il nuovo e pensare all’avvenire per salvaguardare quanto esiste, le due operazioni sono complementari. Non a caso la cultura dei centri storici è nata quando l’Italia progettava il suo futuro”. Da troppo tempo non è più così. “Da tanti anni non si pensa a una politica infrastrutturale per strade e autostrade non più realizzate – continua – Infatti la mancata manutenzione del ponte su Genova non dipende dal fatto che si sono spesi soldi per fare autostrade nuove. Non si sono fatte”.
Passato e futuro ignorati: possiamo quindi pensare ai due lati di una stessa medaglia? “Si contrappone sempre chi conserva l’esistente a chi fa cose nuove invece sono due operazioni complementari – risponde Luca Zevi – Se hai la capacità di guardare avanti hai anche interesse a salvaguardare quanto tramandato altrimenti si crea una trascuratezza generale e un disinteresse per i beni comuni che porta a non fare il nuovo e a mantenere male il vecchio”.
La Regina: “La riforma Franceschini ha abbandonato il territorio”
Archeologo al quale la passione della ricerca non fa mai difetto, impegnato in scavi in Molise, Adriano La Regina ha guidato le antichità di Roma per decenni scontrandosi spesso con il potere politico, cittadino e nazionale. “Naturalmente il crollo a San Giuseppe è un brutto segnale. Dimostra che con gli obblighi di verifica, manutenzione e attenzione nei confronti del nostro patrimonio artistico siamo un po’ indietro”. L’archeologo non addita singole responsabilità odierne, ne fa un discorso più a lunga gittata che coinvolge in primo luogo l’ex ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: “Penso alla politica perseguita negli ultimi anni, in particolare da Renzi che sosteneva le soprintendenze vanno abolite, e a Marianna Madia (era ministro alla pubblica amministrazione nel governo Renzi, ndr) la quale rassicurava chi protestava verso le soprintendenze perché non davano pareri positivi dicendo che le stavano eliminando. La riforma Franceschini ha concentrato l’attenzione sui musei e aree archeologiche che rendono con i biglietti abbandonando il territorio. Questi sono i risultati”.
L’eredità artistica italiana è sterminata. E ha i suoi annetti. “Per sua natura ha problemi di vetustà e le cose archeologiche sono ruderi, le chiese rinascimentali hanno secoli. Tutto ciò comporta oneri. Il guaio – specifica La Regina – è che questi oneri vengono considerati con fastidio come spese che gravano sul bilancio dello Stato per cui bisogna ridurle il più possibile. Invece non si tiene conto che sono investimenti non solo sotto il profilo culturale per quanto producono in termini di civiltà ma anche in termini banalmente economici. Chi ha un’industria – riflette l’archeologo – investe quanto necessario per mantenerle in funzione e sulla produzione. Noi abbiamo questo capitale ma quando si tratta di investire per conservarlo e valorizzarlo al massimo, come ha fatto Franceschni si concentrano tutti gli sforzi su musei e monumenti che rendono, il che è un modo miope”.
Però il non saper gestire le nostre bellezze affinché diano anche un ritorno economico è stato un ritornello costante, ogni volta che ci paragoniamo per esempio alla Francia. “Ovvio, musei e monumenti e archeologici che rendono sono importanti ma il resto non si può abbandonare. Semmai serve uno sforzo per essere al livello degli obblighi che abbiamo. Inutile lamentarsi che ci sono troppi monumenti. Troppi? Buona parte del nostro benessere dipende dalla nostra arte”, constata l’archeologo.