Un libro svela: così Van Gogh creò capolavori nell'inferno del manicomio

Martin Baley scrive la storia del soggiorno: nessuno andò a trovarlo nella casa di cura ma l'artista dipinse molto. L'autore non ha dubbi: Vincent si suicidò

Un libro svela: così Van Gogh creò capolavori nell'inferno del manicomio
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29 Agosto 2018 - 11.19


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Martin Bailey è un giornalista e d’arte e curatore di mostre specializzato su Van Gogh, scrive per The Art Newspaper e ora pubblica un libro in cui svela “l’ambiente terrificante” del manicomio in cui il pittore olandese fu ricoverato, nel sud della Francia, a Saint-Paul de Mausole, alla periferia di Saint-Rémy-de-Provence. L’autore lo scrive nel libro in arrivo sul mercato internazionale “Starry Night, Van Gogh at the Asylum” (White Lion Publishing, pp. 224, 25 sterline). Ambiente terrificante ma non troppo, sostiene il giornalista, e gli consentì di dipingere capolavori: “Grazie al ricovero in manicomio, alla sua forza di volontà e alla sua arte sopravvisse in quell’anno in cui seppe creare così tanto”, scrive l’autore in un articolo citato dal Guardian che dà notizia del libro.

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Bailey ha studiato i registri dell’istituto. E rivela i nomi di chi condivise la condizione di recluso, rivela i suoi collassi mentali e quando cercò di avvelenarsi con i suoi pigmenti per dipingere. Al contempo, scrive, quello è stato uno dei periodi creativamente più fervidi, dipingendo in camera o nel giardino della casa di cura il cui soggiorno fu pagato dal fratello Theo.

Vincent van Gogh, allora 36enne, arrivava da Arles. Entrò nella casa di cura l’8 maggio 1889. Tra i pazienti un tal Henri Enrico sfasciava sempre tutto. I malati non venivano curati e ricevevano miseri pasti da consumare con cucchiai, niente forchette e coltelli perché troppo pericolosi. L’artista scrisse che nella notte risuonavano di continuo urla e versi animaleschi.

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Consultando i registri Bailey ha scoperto che né Theo né gli amici ad Arles, a una distanza di 25 chilometri, andarono mai a visitare Vincent. E che fu segregato in una stanza piccola, chiusa a chiave e spoglia dopo aver tentato di ingoiare le vernici per dipingere mentre prima aveva una stanza luminosa e uno studio separato per dipingere. Il direttore, Théophile Peyron, registrava: “Più volte ha cercato di avvelenarsi, o inghiottendo i colori per dipingere, o ingestendo paraffina presa dal ragazzo mentre riempiva le lampade”.

Per Bailey Van Gogh “era in un ambiente terrificante, ed è ancora più sorprendente che in una tale situazione seppe dipingere alcuni dei suoi quadri più belli e (quasi) ottimisti. Sono convinto che ciò gli permise di sopravvivere”. Almeno il manicomio di Saint-Paul, un ex convento, nel settore maschile era quasi vuoto per cui ogni paziente aveva spazio in abbondanza. Inoltre, dopo un rapporto su un direttore precedente, le condizioni dei malati migliorarono e al tempo del ricovero del pittore il soggiorno, scrive il Guardian, erano “noioso ma non brutale”. Van Gogh uscì il 16 maggio 1890 di sua volontà perché voleva dipingere paesaggi e scrisse che la “prigione” lo stava “schiacciando”.
Meno di due mesi dopo, il 29 luglio, morì a 37 anni per un colpo di pistola in pancia. Sono stati sollevati dubbi se si sia trattato di suicidio, omicidio o un incidente, ma Bailey non ha dubbi: “Le prove del suo stato mentale rendono incontrovertibile il fatto che si suicidò, ma fu grazie al ricovero in manicomio, alla sua forza di volontà e alla sua arte che sopravvisse in quell’anno in cui seppe creare così tanto”.

 

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Martin Bailey, Starry Night, Van Gogh at the Asylum, White Lion Publishing
pp. 224, 25 sterline

 

Vincent van Gogh, l’artista che diventò divo solo da morto

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