Vuoi cogliere la vita delle rockstar? Guarda le foto di Harari

Da Bowie a Bruce, da Pino Daniele a De André, alla Galleria nazionale dell’Umbria gli scatti sui musicisti pop, rock, jazz, di classica. Ecco cosa scrive lo storico dell’arte Marco Pierini

Vuoi cogliere la vita delle rockstar? Guarda le foto di Harari
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22 Giugno 2018 - 20.31


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Rockstar come Lou Reed, Peter Gabriel, Bruce Springsteen, David Bowie, Vasco Rossi, cantautori come Fabrizio De André, Giorgio Gaber,Vinicio Capossela e Leonard Cohen, maestri della musica (ben oltre il jazz) come Miles Davis, un tenore come Pavarotti si ritrovano a due passi a Cristi e Madonne del Medioevo umbro, di Gentile da Fabriano, Piero della Francesca e il Perugino. La Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia organizza la mostra “Wall of Sound” con oltre cento scatti del fotografo musicale (e non solo) Guido Harari, autore che nel 2011 ha aperto ad Alba la galleria fotografica Wall Of Sound Gallery, con casa editrice.
La rassegna è aperta dal 29 giugno al 26 agosto 2018 (occhio agli orari quando c’è Umbria Jazz). Il direttore del museo statale Marco Pierini cura la rassegna realizzata con Solares Fondazione delle Arti di Parma, Umbria Jazz e il Trasimeno Music Festival. Insieme a Umbria Jazz il museo ospita nove concerti quotidiani a mezzogiorno dal 14 al 22 luglio nella sala Podiani. Per gentile concessione dell’autore, storico dell’arte da sempre interessato anche alla musica e alla cultura popolare, pubblichiamo il testo di Pierini dal catalogo di Silvana Editoriale.

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di Marco Pierini

Guido Harari possiede il raro talento di riuscire a cogliere la personalità dei musicisti in qualsiasi condizione: nel corso della performance sul palco, nei momenti ‘privati’ di prova, di pausa, di concentrazione, nello svolgersi delle più intime sedute di posa. In ciascun caso il risultato finale è un’immagine iconica, pronta a depositarsi subito nell’immaginario collettivo fino a smarrire persino la propria connotazione cronologica. Accade con la Fender Telecaster alzata verso il cielo da Bruce Springsteen o con le contorsioni di Iggy Pop, con il sonnellino di Fabrizio De André sdraiato nel corridoio di un palasport accanto a un termosifone, con il ritratto ‘assai compreso di sé’ di Philip Glass o quello ‘ispirato’ – gli occhi al cielo – di Jan Garbarek. Diviene difficile, se si conoscono queste immagini, non richiamarle automaticamente alla mente ogni qual volta si senta o si pronunci il nome dei musicisti che le animano.
Proprio il portato di iconicità che le immagini posseggono tende quasi a far dimenticare come esse siano state generate in situazioni assai diverse e con una dinamica tra fotografo e soggetto decisamente differente. Sul palco il musicista si presenta al cospetto di un pubblico indistinto e l’energia che prorompe da sé si riverbera su tutti i presenti, generando un’onda di ritorno. Che assecondi la propria libertà espressiva o reciti un rituale prestabilito, la rockstar in concerto interagisce con chi guarda – e, ovviamente, ascolta – come fosse un organismo unico. Ogni movenza, sguardo, gesto ha come destinatario un enorme occhio collettivo formato da innumerevoli pupille rapite, rivolte nella medesima direzione. Per il protagonista il valore della performance sembra consistere dunque in primo luogo nel suo svolgersi piuttosto che nella possibilità di farsi testimonianza (comunque sempre parziale), visiva o sonora che sia. Il fotografo non usufruisce quindi di un materiale privilegiato ma condivide esattamente le medesime scene che si offrono al pubblico, sebbene osservate attraverso un occhio meccanico che gli permette, tra le altre cose, di mantenere uno sguardo proprio sull’evento pur vivendolo dall’interno, insieme a tutti gli altri.

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Harari cerca l’attimo
Sbaglierebbe però chi pensasse che le immagini così ottenute non si possano costruire, volere, ricercare e siano invece il mero frutto di una registrazione spontanea e documentaristica. Guido Harari non coglie semplicemente l’attimo giusto, ma lo attende, lo cerca, lo sa individuare perché del soggetto conosce abitudini, gestualità ricorrente, mimica. E nell’attesa paziente della posa anelata – come in una sorta di safari – l’occhio e l’istinto scartano con rapidità potenziali immagini fotografiche che attraversano la retina, rimandando lo scatto fino a quando il quadro visivo che si compone di fronte non lo imponga, non costringa il dito a premere il pulsante. Lo scatto blocca l’istante e lo sottrae allo scorrere del tempo fisico, tuttavia suggerisce il perdurare del gesto e il rinnovarsi sempre uguale dell’azione nella coscienza di chi guarda, conferendo un carattere di esemplarità all’immagine. Carattere facilmente riscontrabile anche in quelle fotografie scaturite dall’azzeramento della distanza e dal confronto immediato, privato, intimo, tra Harari e i soggetti che si sono messi in discussione di fronte al suo obiettivo.
Interessato a “fissare in un’immagine la persona che si cela dietro al personaggio” e trovando naturalmente implicita resistenza in chi solo di rado può permettersi di lasciar assopire il lato pubblico di sé, Guido si è fatto artefice di una dinamica relazionale, modulata e adattata di volta in volta rispetto al musicista, grazie alla quale – per riprendere termini cari alle teorie del Rinascimento – il ritratto risulta allo stesso tempo “vivo” ed “esemplare”, ovverosia, se ci è consentita un’interpretazione contemporanea e adattata al caso specifico, specchio tanto dell’individuo quanto del personaggio (peraltro appare davvero azzardato immaginare di separarli). Harari lascia così libera di muoversi la figura magnetica di Patti Smith, la cui presenza scenica aveva già offerto risultati notevolissimi di fronte all’obiettivo di Judy Linn e poi di Robert Mapplethorpe, mentre risolve il problema di un recalcitrante, ritroso, Ennio Morricone facendo spuntare da dietro una porta un po’ della giacca scura e la mano che sorregge lo spartito; a suggerire il volto soltanto gli inconfondibili occhiali sospesi nel vuoto.

Il caffè di Pino Daniele e Leonard Cohen addormentato
Tra questi due estremi, che in verità rivelano entrambi il medesimo atteggiamento complice e divertito, Pino Daniele che poggia sul piattino “na tazzulella ’e cafè”, Leonard Cohen addormentato per gioco sopra un arredo d’albergo baroccheggiante, Tom Waits mentre indossa teatralmente una coperta trovata per caso come fosse un mantello, Hannibal Lokumbe Peterson e la figlioletta Eternal in un momento di tenerezza che vede protagonista anche la tromba. Ritratti per i quali il bianco e nero oppure il colore non rappresentano scelte di campo ma tavolozze buone per l’una o per l’altra occasione, poiché lo scopo della fotografia nella visione di Harari non è mai fine a sé stesso, bensì è quello di restituire al massimo grado, come si è dichiarato in apertura, la personalità del soggetto. Finalità per la quale è disposto a mettere in campo mezzi non soltanto tecnici ma anche, e soprattutto, umani.
Non si dovrà infine ignorare la disposizione in sequenza voluta dall’artista in mostra e all’interno del volume. Lungi dal suggerire una qualsivoglia lettura per generi, storia, cronologia, le foto si articolano secondo una propria scansione fatta di echi, richiami, analogie (talvolta insospettabili) che nel silenzio offerto dalla parete o dalla pagina annullano la distanza degli stili musicali e consentono di associare Bob Marley e James Brown atteggiati nel medesimo gesto, Jeff Buckley e Fabrizio De André colti in un momento di riposo, la ‘solitudine’ di Pino Daniele e di Bob Dylan di fronte a migliaia di persone, l’urlo di Luciano Pavarotti nei pressi del sorriso di John Cage che si staglia sulla scritta “W il silenzio”.
Un muro del suono per immagini, dunque, al quale Harari ha conferito un vero e proprio ritmo interno secondo logiche che rispondono alla percezione visiva e contemporaneamente a uno spiccato gusto musicale. Ritmo talvolta serrato, talvolta lento, sincopato o piano, solido e regolare oppure spezzato, allentato, frastagliato, scandito da associazioni formali, ricordi, inclinazioni, segrete armonie. Cadenza sulla quale Harari racconta la sua avventura creativa e compone il mosaico del proprio immaginario fotografico, sapendo di aver costruito ogni tessera con passione, sincerità, partecipazione, avendoci riversato – secondo il mai dimenticato insegnamento di Art Kane – ‘tutta la vita’: “You put your life into your pictures, no matter what you’re doing it for”.

 

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