Ste. Mi.
Gian Lorenzo Bernini riuscì a essere libero pur fra le strette maglie del potere papalino. E seppe piegare il duro marmo a ogni sua ambizione, rendendolo perfino aereo e trasparente. Lo ha raccontato con parole avvincenti e con la sua competenza lo storico dell’arte Tomaso Montanari nell’eccellente serie tv di Rai 5 La libertà di Bernini. Rivedere quel ciclo, o almeno la puntata in cui lo studioso e polemista ricorda come il potere religioso volesse censurare il gruppo scultoreo di Apollo e Dafne perché indecoroso, può essere un’introduzione eccellente alla mostra sul Bernini con cui la Galleria Borghese di Roma ricorda i venti anni dalla riapertura nel 1997 dopo anni di restauri e lavori che parevano non finire mai.
Andrea Bacchi e la direttrice del museo Anna Coliva, con altri specialisti e con Fendi come partner, hanno curato l’esposizione sull’artista nato a Napoli il 7 dicembre 1598 e morto il 28 novembre 1680 a Roma, allora, Stato Pontificio. Si gioca in casa, perché la Galleria Borghese custodisce più opere di quel genio che, contemporaneo del Borromini, mutò Roma, disegnò per esempio il baldacchino di San Pietro, e dette un’impronta indelebile al Barocco. Una nota riassume così l’intento della rassegna: «Il tema conduttore è la Galleria Borghese quale scena privilegiata della scultura di Gian Lorenzo Bernini: il cardinale Scipione, suo primo committente, lo volle autore di gruppi marmorei autonomi, per dare “figura di immaginazione” allo spazio di ogni stanza; il successivo committente, papa Urbano VIII Barberini, lo volle scultore integrato in una costruzione globale dello spazio, che fosse architettura ma al contempo comprendesse dentro di sé luce, colore, figurazione, illusioni dimensionali e proporzionali».
Dalla capra all’ermafrodito
Detto ciò, Anna Coliva e Andrea Bacchi hanno suddiviso in otto sezioni il percorso che, è bene essere chiari, comprende opere presenti nel museo. Dall’apprendistato fino al 1617 circa si risale alla giovinezza, dopo di che la mostra procede per filoni: c’è la finestra sui putti, tra cui quello della Capra Amaltea forse di Gian Lorenzo con il padre Pietro, forse di altri; ci sono come logico i gruppi scultorei della Borghese stessa, come l’Enea e Anchise contrapposto al dipinto sullo stesso tema di Federico Barocci, sempre del museo romano, e il sensualissimo e vertiginoso abbraccio tra Apollo e Dafne.
Nella parte sui restauri di opere antiche del Bernini, quando restaurare equivaleva a integrare una scultura secondo criteri oggi inaccettabili ma coerenti nel ‘600, i curatori hanno ottenuto tra l’altro il notissimo e ambiguo Ermafrodito dal Louvre. E poi i busti, i dipinti (Gian Lorenzo era ritrattista e auto-ritrattista di grande acume psicologico), i disegni, i bozzetti in terracotta e in bronzo. In tutto una settantina di opere esposte o segnalate nel tragitto del museo vogliono tratteggiare l’intero corso artistico di Gian Lorenzo Bernini che eccelse non soltanto per le sue innovazioni e per una maestria tecnica inaudita ma anche grazie a un’alta convinzione del proprio ruolo di artista che nessun potere terreno poteva sottomettere.
Bernini versus Borromini: una rivalità di genio e di arte